Le tappe di una storia – L’età antica
Il fenomeno migratorio interessa anche la fase precedente l’inizio della Diaspora come intesa dal 70 d.e.v. quando gli ebrei vennero deportati dai romani. Fu un processo assimilabile a un classico e talvolta inevitabile spostamento di parti di una popolazione.
Spostamenti ebrei in antichità
La «dispersione» del popolo ebraico, chiamata secondo una vecchia usanza col nome greco di Diàspora, risale al secolo VIII e al secolo VI a.C., e precisamente ai secoli che videro successivamente la distruzione dei due regni ebraici: il regno d’Israele (722) per opera di Sargon, assiro, e il regno di Giuda (586), per opera di Nabocodonosor, caldeo. Ma la «dispersione» ha origini ancor più remote e complesse: ancora prima delle deportazioni vi erano state schiere di emigranti che andavano lontano a cercar fortuna e avventure, o costretti dalle vicissitudini della politica, come si vede presso i Greci ed i Fenici. Poi vennero le deportazioni in massa, conseguenza della sconfitta militare, e le vittime principali furono le classi dirigenti e agiate dei due regni[5].
Gli ebrei, deportati dalla Palestina dai Babilonesi nelle loro successive campagne dal 597 al 586, non avevano avuto difficoltà ad adattarsi alla loro nuova condizione[6].
Fin dal tempo delle campagne degli Assiri e dei Babilonesi in Palestina, il popolo ebraico era entrato per la prima volta in contatto con l’Europa e gli Europei. Anche prima che avesse termine l’età biblica gli ebrei erano stabiliti un po’ dovunque nel mondo greco. […] Negli ultimi libri della Bibbia, come l’Ecclesiaste, certi critici hanno rilevato le tracce d’una caratteristica influenza greca. Le guerre susseguitesi senza posa, il traffico internazionale degli schiavi e l’inevitabile sviluppo del commercio, tutto tendeva a condurre gli emigranti verso la Grecia e le sue colonie[7].
Quando nel 536 a.C. Ciro consente agli esiliati di tornare, una gran parte preferisce restare in esilio. […] Gli ebrei hanno continuato a esistere […] non solo grazie a quelli che tornarono, ma anche a quelli che scelsero la diaspora e vi fondarono una potente e duttile cultura. In quel tempo prese forma la configurazione geopolitica più propria dell’ebraismo, la “normalità” che gli è peculiare: la dialettica tra diaspora e Israele, la duplicità della sua vocazione.
Dalla distruzione del Secondo Tempio ad opera di Tito, nel 70 d.C., che segna la fine di ogni autonomia politica degli ebrei, questa duplicità si è espressa effettivamente in forma “nevrotica”: di secolo in secolo e di millennio in millennio l’interminabile diaspora era vissuta come attuale e transitoria, le terra di Israele come definitiva e inattuale. Là vivevano ancora gli ebrei, non come popolo ma come frammento[8].
Il popolo ebraico, durante questo periodo, non era ristretto alla sola Palestina ed ai territori immediatamente limitrofi; e la sua diffusione al di fuori del paese fu non meno notevole del suo consolidamento all’interno. Discendenti degli esiliati dei regni fratelli d’Israele e di Giuda si potevano trovare in tutte le centoventisette leggendarie province dell’Impero Persiano, dove restarono ed anche si diffusero, anche dopo che le conquiste di Alessandro Magno li ebbero messi in più strette relazioni con il mondo greco[9].
Gli Ebrei e la diaspora – Treccani Scuola
[5] Jules Isaac, Gesù e Israele, Nardini Editore, Firenze, 1976, p. 108.
[6] Cecil Roth, Storia del popolo ebraico, Silva Editore, Milano, 1962 p. 87.
[7] Cecil Roth, Storia del popolo ebraico, Silva Editore, Milano, 1962 p. 213-214.
[8] Stefano Levi Della Torre, Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno, Donzelli Editore, Roma, 1995, pp. 21-22.
[9] Cecil Roth, Storia del popolo ebraico, Silva Editore, Milano, 1962 p. 141.