Primo Levi
Primo Levi nacque a Torino nel 1919 e morì nel 1987. Di professione chimico, a seguito della sua esperienza nel lager divenne scrittore. Fu autore di saggi, racconti, poesie, romanzi. Veniva da una famiglia fondamentalmente laica, come molte nell’Italia di inizio ‘900. Tuttavia, la componente ebraica non veniva certo meno tra le componenti della sua identità. Ma emerse con forza inaspettata per le tragiche vicende che lo coinvolsero.
Perfino più difficoltoso riusciva a Levi la definizione – proposta da altri – come scrittore ebreo. Al contrario, egli affermò ripetutamente di non essersi sentito ebreo fino all’emanazione delle leggi razziali, se non addirittura fino ad Auschwitz. […] La sua famiglia, come molte altre a Torino e altrove, non era religiosa, fatta eccezione per la celebrazione di alcune particolari ricorrenze che coinvolgevano la famiglia stessa come Pesach e Purim[16]. Ispirandosi a Gramsci, attribuiva questo atteggiamento al fatto che il Risorgimento era stato quasi completamente laico e che «la partecipazione alle lotte risorgimentali comportava, se non l’obbligo, almeno un forte invito alla laicità»[17].
La sua opera più importante, “Se questo è un uomo” (1947) nacque dal bisogno di raccontare gli anni della prigionia nel lager. Egli fu colpito da un «impulso immediato e violento» a fornire testimonianza dell’accaduto.
Nella prefazione a “Se questo è un uomo” (1947) [Primo Levi] ci racconta acutamente dell’«impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari», a «raccontare agli “altri, di fare “gli altri” partecipi»[18], e allo stesso tempo della quasi impossibilità di comunicare le sue brucianti esperienze. […] Afflitti nel constatare l’incapacità degli altri a partecipare, Levi e gli altri sopravvissuti hanno considerato loro dovere insistere continuamente con i loro racconti nella speranza che un giorno qualcuno capirà[19].
“Se questo è un uomo” racconta la terribile esperienza di Primo Levi nel campo di concentramento di Auschwitz, dove fu prigioniero dal febbraio 1944 all’apertura dei cancelli il 27 gennaio 1945. Il lasso di tempo non troppo elevato e la professione di chimico che lo portò a lavorare nella sede di Buna-Monowitz (Auschwitz III) furono gli elementi che consentirono a Primo Levi di sopravvivere.
Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! […] Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti[20].
L’autore si sforza di capire e di spiegare razionalmente l’irrazionalità della barbarie. Scrive con uno stile semplice, preciso, ma anche rigoroso al fine di esprimere l’esigenza di controllo e dignità. La varietà di scritti e il ruolo fondamentale nella comunicazione della testimonianza hanno reso Primo Levi un punto fermo della letteratura italiana del ‘900.
[In “Se questo è un uomo”] in una prosa incredibilmente limpida, che è tanto più potente quanto più manca di presunzione, Levi rende accessibili al lettore […] undici mesi di orrore. […] Levi si rendeva conto che continuare a chiedersi «com’è possibile…?» – cioè continuando a considerare la nuova realtà attraverso le lenti dell’eduzione borghese che egli aveva ricevuto in una società civile – lo avrebbe reso indifeso e in pericolo di vita; quello che lui, e gli altri come lui, consideravano la norma, era in quel contesto del tutto anormale, e ciò che fino allora avrebbero considerato impensabile era del tjutto normale per coloro che si trovavano ora a comandarlo. Rapidamente, Levi – Häftling (prigioniero) 174517 – comprese che quello doveva essere l’inferno: «Oggi ai giorni nostri, l’inferno deve essere così, […] più giù di così no si può andare. […] Nulla più è nostro; ci hanno tolto glia biti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno… Ci toglieranno anche il nome. […] Si immagini ora un uomo a cui, insieme alle persone amate, [venga tolto] letteralmente tutto quello che possiede; sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso[19]». L’inferno, il lager, era il luogo in cui ombre di uomini nudi, ridotti da soggetti a oggetti, erano completamente alla mercé di forze più grandi di loro, poteri che risiedevano in ognuno e dappertutto, eccetto che presso di loro[22].
Il testo segnò anche l’inizio di una riflessione che si sviluppò nel corso delle opere successive, proseguendo con “La tregua” (1963), l’avventuroso percorso compiuto per tornare a casa, e concluso con “I sommersi e i salvati” (1986). Tra le altre opere più importanti “Il sistema periodico” (1975) e “Se non ora quando?” (1982).
“Se questo è un uomo” è un lavoro di straordinaria di straordinaria forza, probabilmente la più acuta tra le numerose memorie che sono emerse dall’esperienza della Shoah. Parte della sua forza è dovuta all’aura mitica che pervade numerosi dei suoi episodi, come nella segregazione imposta e nell’esilio degli ebrei lontano dalla loro realtà famigliare. Ogni personaggio ha una storia – una storia crudele e terrificante, che poteva accadere in Italia come in Algeria, in Ucraina o in Norvegia – nella quale egli diviene l’oggetto di un incomprensibile destino. Il trauma della perdita delle proprie radici e del ritrovarsi al tempo stesso immerso in un ambiente assolutamente ebraico, spinge forzatamente Levi ad appropriarsi del proprio ebraismo in un modo del tutto nuovo, sperimentando «il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo ritrovato». La liberazione di Auschwitz compiuta dall’Armata Rossa, che vi trovò un pugno di prigionieri esentati dalla Marcia della Morte e lasciati indietro nell’infermeria, non era null’altro che un miracolo, e il tortuoso viaggio di ritorno verso casa – narrato da Levi ne “La tregua”- non era diverso dalle migrazioni epiche[23].
[16] Si veda l’unità sul calendario ebraico, paragrafo “La tradizione di Pesach”.
[17] Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali. Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino, 1997, p. 1611.
[18] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 8.
[19] Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali. Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino, 1997, p. 1610.
[20] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1958, p. 23.
[21] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 29-30 cit. in Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali. Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino, 1997, p. 1614.
[22] Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali. Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino, 1997, p. 1613-1614.
[23] Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali. Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino, 1997, p. 1615-1616.