Il sabato
Così furono portati a compimento il cielo, la terra e tutte le loro schiere.
E Dio portò a compimento, nel settimo giorno, il suo lavoro che aveva fatto,
e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto.
Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò,
perché in esso aveva cessato da ogni suo lavoro
che Dio, creando, aveva fatto[5]
Il rispetto dello Shabbàt è uno dei punti di riferimento dell’identità ebraica ed è antico quanto il mondo: esso nasce infatti con la cessazione dell’attività della Creazione da parte del Signore.
Dopo la creazione del mondo, giunto al settimo giorno, Dio decise infatti di fermarsi e riposarsi: per questo l’uomo, durante questo giorno, si astiene da ogni attività lavorativa.
Shabbàt, settimo giorno della settimana contando da domenica, sebbene ricorra circa 50 volte nel corso di un anno, rappresenta una delle festività e delle giornate più importanti del calendario ebraico, l’unica ad essere citata nei Dieci Comandamenti, dove è scritto: ricordati del Sabato per santificarlo.
Non si tratta di mera interruzione dalle fatiche del lavoro, ma di un tempo speciale, in cui si recuperano i valori del vivere comune, specie nella dimensione familiare, e si riconosce un limite umano nel trasformare e creare. Per questo, l’ebreo si astiene da attività semplici che non richiedono sforzo ma che comunque producono una trasformazione nella natura (come per esempio accendere e spegnere la luce oppure accendere un fuoco, o anche scrivere).
Come sosteneva A. J. Heschel, Shabbàt è da considerarsi come uno spazio che l’uomo ritaglia nel tempo per intravvedere la santità divina.
Noi dobbiamo trasportare e riprodurre in noi, di settimana in settimana, quel senso di soddisfazione e di appagamento che Dio provò, se così è lecito dire, dinanzi all’opera uscita dal suo fiato[6].
Il riposo sabbatico, cui tutti hanno diritto, è stato visto come la garanzia del rispetto del principio di uguaglianza e parità tra gli uomini:
In esso non farai alcuna specie di lavoro, né tu né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo
né la tua serva, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcun capo del tuo bestiame,
né il forestiero che si trova entro le tue porte;
affinché il tuo servo e la tua serva possano riposare al pari tuo[7].
L’idea dello Shabbàt ha rappresentato un grande contributo che l’ebraismo ha dato alla cultura di tutto il mondo: dal rispetto di esso è derivata la concezione ciclica della settimana e l’idea fondamentale e rivoluzionaria del diritto al riposo settimanale. Nello Shabbàt tutti sono uguali e tutti, indistintamente, hanno diritto al riposo: uomini, donne, anziani, bambini, padroni o dipendenti.
L’emergenza regolare, nella pulsazione del tempo, del sabato ebdomadario, non come una giornata di evasione domenicale dedicata alla distensione spirituale ed alle preoccupazione dell’anima, ma come un arresto dell’attività inventiva dell’uomo, come una manifestazione della volontà umana nel seno stesso della vita economica, accorda a questa vita un partner per mezzo del quale le sue strutture sono continuamente interrogate e sospese al potere regolatore e responsabile dell’uomo. Si è cercato, in questi ultimi anni, di vedere se ci fosse una teologia del lavoro nella Bibbia. Vi si troverà piuttosto una teologia del riposo, del sabato, ma di un riposo il quale consta ad un tempo del respiro che costituisce il tempo libero e dell’ispirazione che la parola accorda, ritmo che allontana la minaccia di asfissia che il lavoro, abbandonato a se stesso, oppone all’uomo. Se la distinzione, nel linguaggio biblico, tra il lavoro-melakhah (messaggio, missione) e il lavoro-avodah (servitù, schiavitù) c’informa sufficientemente sulla lucidità con la quale l’ebraismo contempla l’ambiguità del lavoro, fonte della dignità umana e sabbia mobile del suo sprofondare, il sabato si offre immediatamente come un’esigenza per mezzo della quale, in regolari svolte di tempo, la avodah si trasforma in melakhah. Partner dialogante del lavoro, il lavoro fornisce alla civiltà umana la possibilità di realizzare ciò che, secondo P. Ricoeur, è la sua vocazione propria: di essere ad un tempo una civiltà del lavoro ed una civiltà della parola[8].
Nel calendario ebraico i giorni trascorrono da tramonto a tramonto: Shabbàt inizia venti minuti prima del tramonto al venerdì e termina la sera del sabato, alla comparsa in cielo di tre stelle.
Numerose sono le consuetudini legate a questa festa: in primis il divieto di effettuare qualsiasi attività lavorativa. Sono 39 le melakchòt (originariamente le astensioni da tutte le attività necessarie per la costruzione del Santuario nel deserto): tra esse vi sono il divieto di accensione e spegnimento di ogni tipo di apparato elettrico, il divieto di cucinare, cucire, guidare, viaggiare e trasportare.
Per conoscerle tutte, puoi visitare questa pagina:
http://www.Shabbat.it/6-i-divieti-le-39-melakhot
Il Sabato è fatto per celebrare il tempo, non lo spazio.
Per sei giorni alla settimana noi viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo[9].
Tradizionalmente, si usa accogliere lo Shabbàt con l’accensione delle candele da parte della madre di famiglia. Prima di consumare la cena del venerdì sera e il pranzo del sabato – Shabbàt è anche il momento gioioso e armonioso in cui la famiglia si riunisce in relax dopo una settimana di lavoro – si recita una benedizione sul vino – il Kiddùsh – ed una sul pane.
[5] Genesi, 2, 1-3.
[6] Dante Lattes, Shabbat, AA VV, Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Roma, 1972, p. 82
[7] Deuteronomio, 5, 15.
[8] Andrè Neher, Chiavi per l’ebraismo, Marietti, Genova, 1988, p. 96.
[9] Abraham Joshua Heschel, Il Sabato, Rusconi, Milano, 1972, p. 18.