Tra guerre e diplomazia
La storia dello Stato di Israele è costituita dal parallelo sviluppo di un tessuto sociale, culturale, economico, proprio di una democrazia e di una società civile, tesa a definire relazioni di reciproco rispetto tra i propri cittadini di fede e tradizione diverse, e, nel contempo, da un susseguirsi di conflitti.
Dopo la proclamazione di indipendenza dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, i paesi arabi confinanti (Libano, Siria, Iraq, Arabia Saudita ed Egitto) tennero fede alla loro posizione di rifiuto alla sua esistenza e il 15 maggio attaccarono il neonato Stato. Gli israeliani, forti delle loro esperienze maturate con l’Haganà, la Brigata ebraica e la guerra civile[2], erano riusciti a resistere strenuamente, nonostante un’inferiorità numerica di partenza.
La coalizione di stati della Lega araba che “intervenne” in Palestina il 15 maggio non era unita negli scopi né preparata alla guerra[3].
Gli stessi Arabi palestinesi, divisi in gruppi eterogenei e scarsamente coordinati, non ebbero che sporadiche possibilità di battersi per una patria che ancora non esisteva. Questa era forse la differenza di fondo: da un lato gli israeliani combattevano per attuare un’idea maturata da decenni e divenuta ora un’idea nazionale; gli Arabi di Palestina combattevano contro l’intrusione imperialistica e israeliana ma non ancora in nome di una “nazione” palestinese[4].
Il conflitto, tranne brevi periodi di cessate il fuoco, si protrasse fino al febbraio 1949.
L’esercito israeliano sgomberò il Sinai, senza però assicurarsi Gaza. Nel nord del paese Tsahal [l’esercito israeliano] […] [aveva respinto] l’Esercito di liberazione arabo in Libano […]. A completamento delle operazioni israeliane, ancora il 5 marzo 1949, le forze ebraiche raggiunsero l’estremità inferiore del Negev, laddove sarebbe poi sorta la città di Eilat. Il quadro era così completato e assegnava una vittoria di larga misura ad Israele, che aveva perso nei combattimenti 6.373 persone, pari all’1% della sua popolazione. I morti in campo arabo non sono mai stati contati ma le stime variano da un minimo di 5mila a un massimo di 15mila vittime[5] .
Gli Arabi consideravano Israele una realtà provvisoria da eliminare il più presto possibile. A rendere più acuta la tensione vi era poi il problema dei rifugiati, accolti nei paesi arabi prossimi a Israele, ma accampati in condizioni disumane[6] .
In un colloquio del 22 marzo [1949], a Washington, il ministro degli Esteri d’Israele, Moshe Sharrett, chiarì ad Acheson la posizione dello Stato ebraico sul problema [dei profughi]: 1) Israele non era responsabile della fuga degli arabi palestinesi da proprio territorio, in quanto il conflitto era stato scatenato dall’invasione degli eserciti arabi; 2) la questione avrebbe potuto essere discussa soltanto in strettissima connessione con un trattato di pace con i vicini arabi; 3) in ogni caso, Israele non avrebbe potuto rimpatriare che un piccolo numero di profughi per permettere il ricongiungimento delle famiglie. In definitiva, Israele avrebbe potuto impegnarsi nella questione nella questione solo nel momento in cui questa fosse stata inserita nell’ordine del giorno di una conferenza si pace[7] .
La conclusione del conflitto lasciò così aperta la questione dei profughi, destinata a trascinarsi fino ad oggi. Gli Stati arabi dove questi trovarono rifugio, peraltro, la utilizzarono per propri fini, ossia come scusa per ricattare sia gli altri attori regionali che le potenze occidentali, usando anche argomentazioni pretestuose, come l’assimilazione dell’uscita dei palestinesi dal neonato Stato d’Israele alla Shoah. Tra l’altro, parallelamente, ebbe luogo la cacciata degli ebrei dai paesi arabi: comunità ebraiche presenti da secoli subirono violente proteste a sfondo antisemita, fenomeno che portò presto a un’emigrazione forzata di poco meno di un milione di persone.
L’assimilazione della Shoah alla Nakba dei palestinesi (l’abbandono arabo, in parte volontario e in parte indotto, nel 1948 del territorio assegnato dall’Onu a Israele ndt), offre un altro volto alla banalizzazione dell’evento [la Shoah]. Da un punto di vista storico non esistono punti in comune fra l’esodo di 700mila persone e la distruzione programmata di un popolo su scala continentale. […] Questa confusione di due avvenimenti così diversi offre senza dubbio l’esempio della strumentalizzazione più grossolana[8] .
Dalla fine della prima guerra arabo-israeliana ebbe inizio il consolidamento dello Stato ebraico. Da una parte la ricerca della sopravvivenza, dovuta a una costante minaccia dei vicini, che fino a metà degli anni ’60 rimasero convinti di poterlo distruggere; dall’altra, la ricerca di una normalizzazione, che coinvolgesse ogni aspetto della società, la politica, la demografia, l’istruzione, l’economia. A condurre questi processi, fu la sinistra riformista del partito laburista, che sarebbe rimasta al potere per circa trent’anni. Vennero anni densi di eventi, a livelli sia interno che internazionale. Ricostruendo per tappe fondamentali questi decenni, particolarmente degni di menzione furono la crisi di Suez del 1956, la Guerra dei Sei Giorni del 1967 (destinata ad avere un forte impatto sulle dinamiche del conflitto), la Guerra del Kippur del 1973, l’accordo di pace con l’Egitto tra Begin e Sadat nel 1979, la guerra in Libano nel 1982, lo scoppio della prima intifada nel 1987, gli accordi di Oslo del 1993. Naturalmente, a condizionare le dinamiche locali e regionali intervennero scenari più ampi, primi fra tutti i rapporti tra le Superpotenze della Guerra fredda, Stati Uniti ed Unione Sovietica, gli equilibri globali e le vicende della regione.
Partiamo, in questa rapida ricostruzione, dalla crisi di Suez del 1956.
Nel 1952, un colpo di stato in Egitto portò al potere il generale Muhammad Naguib e il colonnello Gamal Nasser, che rimase unico leader dal 1954 alla morte, nel 1970. In questi anni, Nasser divenne punto di riferimento per tutto il movimento terzomondista e per il mondo arabo. Nella figura di Nasser confluì l’atavica ostilità nei confronti d’Israele dei paesi dell’area e l’Egitto si concretizzò sempre più come una concreta minaccia per Israele; l’irrigidimento americano nei confronti dello Stato ebraico soprattutto sotto l’amministrazione Eisenhower portò lo Stato ebraico a una condizione di sempre maggiore isolamento internazionale. Così il governo di Gerusalemme[9] guardò con maggiore interesse verso quei Paesi con cui convergevano i suoi interessi, ossia la Francia (diffidente verso Nasser, considerato sostenitore della causa dell’indipendenza algerina in una fase in cui anche la situazione delle colonie in Indocina si stava complicando) e la Gran Bretagna, anch’essa timorosa di essere marginalizzata rispetto a certi scenari.
Il casus belli fu quindi offerto dal progetto nasseriano di costruire ad Assuan, sul Nilo, una grande diga che avrebbe permesso di regolare i flussi idrici del fiume e, nel medesimo tempo, di concedere al paese energia idroelettrica a bassi costi e in grande quantità. […] Per dare corso all’onerosissimo progetto l’Egitto non poteva fare conto solo su di sé, aveno una minima parte delle risorse finanziarie necessarie. […] L’unico strumento a sua disposizione […] era quello di ricorrere a una risorsa importante, il canale di Suez, rilevante fonte di reddito per il Paese. Il 26 luglio 1956 annunciò quindi la volontà di nazionalizzare l’ente che lo gestiva, la Compagnie universelle du canal maritime de Suez, con sede a Parigi, le cui quote di proprietà erano in mano britannica al 44%. […] Le risposte per parte francese e inglese furono allarmate. Mentre in Gran Bretagna Eden andava associando la figura del rais cairota a quella di Hitler, sostenendo la pericolosità dei progetti egiziani, la Francia si preparò a colpire militarmente. […] Tuttavia, una impresa militare contro Nasser era piena di implicazioni. […] L’azione che andava delineandosi sembrava più il prodotto del risentimento che non il risultato di un preciso calcolo, capace di tenere in considerazione i costi e i ricavi di un atto di forza. […] Washington […] aveva manifestato il suo netto dissenso verso il ricorso alle armi. […] Per i francesi, che intendevano comunque dare corso alle loro intenzioni, si trattava di trovare un alleato sul terreno. In tal senso, quindi, tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre, dopo avere preso contatto con il governo israeliano, di nuovo presieduto da David Ben Gurion, arrivarono con l’assenso britannico, a definire i termini di un accordo strategico che avrebbe visto cooperare Parigi, Londra e Gerusalemme contro Il Cairo. L’ipotesi di iniziativa militare, l’operazione Muskeeter, sottoscritta dagli israeliani poiché dava loro la possibilità di sferrare un colpo durissimo al maggiore antagonista, prevedeva l’attacco al dispositivo difensivo egiziano nel Sinai. Si dava per certo che l’aggressione avrebbe sortito i suoi effetti, richiedendo così l’intervento franco-britannico, ufficialmente motivato con ragione che il contingente alleato avrebbe fatto da forza di interposizione tra i due contendenti. In tale modo avrebbe costretto gli eserciti avversari a ritirarsi ad una distanza di dieci miglia dalle due rive del canale, consolidando inoltre un presidio occidentale nella zona di Porto Said[10] .
Gli accordi tra i tre Paesi furono messi nero su bianco nella segreta conferenza di Sèvres tra il 22 e il 24 ottobre 1956. Pochi giorni dopo, il 29, partiva l’offensiva militare israeliana, che, grazie all’inventiva del Capo di Stato Maggiore Moshé Dayan, riuscì in breve tempo a conquistare gran parte della penisola del Sinai.
Moshé Dayan
Fu questo il segnale per gli ultimatum anglofrancesi, che vennero lanciati il giorno successivo; il loro rifiuto permise a sua volta l’inizio delle ostilità aeree contro l’Egitto, in atteso dello sbarco nel canale, previsto per il 5 novembre. La scelta dei tempi si rivelò però disastrosa per i britannici e i francesi, poiché la loro iniziativa provocò le ire del presidente americano. Eisenhower, che aveva sempre contrastato l’uso della forza e che era stato tenuto all’oscuro in merito alla «collusione» anglo-franco-israeliana, veniva così messo, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 6 novembre, in una posizione di grave imbarazzo proprio dai suoi principali alleati. Ancora più grave era la tragedia che si stava compiendo nelle strade e nelle piazze di Budapest. […] L’azione britannica e francese distrasse l’attenzione da ciò che stava accadendo nell’Europa dell’est, permettendo ai sovietici di criticare l’aggressione anglofrancese mentre cinicamente proseguivano la propria[11] .
Il protrarsi dei tempi vanificò anche le ragioni del pretesto di intervento: i combattimenti si erano esauriti, mentre le parti avevano accettato un cessate il fuoco. Complici così numerosi fattori, tra cui le pressioni americane e la prospettiva di un crollo finanziario britannico, le ostilità cessarono.
La crisi di Suez ebbe conseguenze per tutti gli attori coinvolti. Francia e Gran Bretagna confermarono il loro processo di decadenza dal ruolo di Grandi Potenze e persero gran parte della loro influenza in Medio Oriente, presto confermata dalla rivoluzione in Iraq del 1958 e dalle crescenti tensioni in Algeria. Gli Stati Uniti confermarono invece il loro ruolo di Superpotenza e il rieletto presidente annunciò la “dottrina Eisenhower”, per cui gli USA avrebbero usato la forza militare per aiutare tutti quei paesi del Medio Oriente che avessero chiesto aiuto contro il comunismo. Nei confronti di Israele iniziarono pressioni affinché si ritirasse dai territori conquistati: dopo intensi, negoziati, il 1 marzo 1957, il Ministro degli Esteri Golda Meir annunciò il ritiro; ogni interferenza nel passaggio delle navi israeliane attraverso lo stretto di Tiran sarebbe stata considerata un casus belli però. Una forza di emergenza delle Nazioni Unite (United Nations Emergency Force, UNEF) fu posta come garanzia del rispetto dello Stretto come acque internazionali. Israele ottenne comunque benefici da questi esiti: i suoi confini sarebbero rimasti stabili per circa un decennio; l’economia iniziò un graduale miglioramento; fece tesoro dell’esperienza militare e diplomatica della crisi di Suez. Tuttavia, Israele ne uscì penalizzato per la propaganda nel mondo arabo: si era infatti “prestato a collaborare” con i vecchi imperialisti, dimostrandosi così diverso dai paesi decolonizzati. Nasser uscì invece come l’eroe del mondo arabo.
I palestinesi erano rimasti ai margini di queste vicende politiche, militari e diplomatiche. Le loro esigenze non furono mai quasi prese in considerazione dalle parti in causa. L’unico elemento che la crisi chiarì ulteriormente fu il sostanziale disinteresse dei paesi arabi nei loro confronti. E proprio negli anni successivi maturò una loro prima forma di organizzazione.
Fu in risposta a queste demoralizzanti conclusioni che tra il 1957 e il 1958 alcuni giovani palestinesi avviarono una serie di colloqui che avrebbero condotto alla rinascita della politica del loro popolo. L’uomo che si affermò come leader fu Yasser Arafat, che divenne il simbolo della causa palestinese. […] Nel 1959 prese vita Al Fatah, il cui nome derivava dall’inversione delle iniziali di «movimento per la liberazione della Palestina»[12] .
All’inizio degli anni ’60 sorsero numerose organizzazioni (quasi una quarantina), tutte però di modeste dimensioni. Lo stesso Fatah, nel 1966, ancora non andava oltre i 500 membri attivi.
Il 29 maggio 1964, sulla scia del vertice della Lega Araba tenutosi al Cairo nel mese di gennaio, nacque l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Premessa fondamentale della sua carta costitutiva era che la spartizione della Palestina prevista dall’ONU nel 1947 e la nascita dello Stato d’Israele fossero interamente illeciti. L’OLP si dotò anche di un esercito, che attraeva le sue reclute proprio da Fatah. Le prime conseguenze di questo attivismo furono raid terroristici sul territorio israeliano, appoggiati soprattutto dall’Egitto di Nasser e dalla Siria.
[2] Si veda l’unità sul sionismo, paragrafo “Dalla Prima Guerra Mondiale alla nascita dello Stato d’Israele”.
[3] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 51.
[4] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Bari, 2003, p. 943.
[5] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 91-92.
[6] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Bari, 2003, p. 945.
[7] Antonio Donno, Una relazione speciale. Stati Uniti e Israele dal 1948 al 2009, Le Lettere, Firenze, 2013, p. 70-71.
[8] Georges Bensoussan, Memoria come evento culturale svuotato di significato storico, Pagine Ebraiche, n. 3 marzo 2013, p.31.
[9] Gerusalemme era stata proclamata capitale nel 1950 e vi erano stati spostati i Ministeri e il Parlamento da Tel Aviv, ma fu recepita definitivamente come tale dalla legislazione israeliana il 30 luglio 1980 con la promulgazione della Jerusalem Law, la Legge fondamentale che definiva natura e qualità giuridica del suo status.
[10] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 118-119.
[11] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 76-77.
[12] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 81.