Una questione ancora irrisolta

Share:

La vittoria del Likud di Benjamin Netanyahu nel maggio 1996 mutò nuovamente gli scenari, riportando al centro dell’attenzione il tema della sicurezza. Il susseguirsi di attentati terroristici, infatti, stava segnando la crisi del processo di pace.

Nel maggio 1999, elezioni anticipate riportarono al governo i laburisti: Primo Ministro divenne Ehud Barak. Questi tentò nuovi sforzi in direzione della pace. Nel luglio 2000, sempre nello scenario di Camp David, avviò ancora una volta intensi negoziati. Gli israeliani si presentarono con una proposta generosa: per un futuro stato palestinese offrivano il 92% della Cisgiordania, la possibilità di costruire la capitale nei pressi di Gerusalemme, la garanzia del ritorno dei profughi nei Territori. Arafat rifiutò. Ogni residua speranza di pace tramontò e una nuova ondata di attentati terroristici si abbatté su Israele.

Nel decennio successivo, la situazione peggiorò ulteriormente: nel 2000, scoppiò la Seconda Intifada.

La visita compiuta il 28 settembre da Ariel Sharon, leader del Likud, al Monte del Tempio, luogo sacro ai musulmani, fu vissuta come una deliberata provocazione. […] Inoltre, la rivendicazione dell’ebraicità della Spianata delle Moschee, situata laddove sorgeva il Tempio di Salomone, era uno dei nodi critici del conflitto. […] Da subito, quindi, si succedettero violentissimi tumulti ai quali si accompagnarono scontri con il ricorso alle armi da fuoco. Era scoppiata l’intifada Al-Aqsa, molto più aggressiva della prima e assai mono spontanea. Mentre i miliziani dell’Autorità nazionale palestinese prendevano parte alle violenze, gli attentati suicidi riesplosero in tutta la loro terrificante potenza[27].

Dal 2001, a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre e del polarizzarsi delle posizioni delle parti in campo, nelle agende internazionali la questione rientrò nella più generale lotta al terrorismo.

Nel 2003, il Presidente americano George W. Bush propose un Road map for peace, elaborata dal “quartetto” Stati Uniti, Russia, Onu e Unione Europea. L’obiettivo, mai davvero raggiunto, era la cessazione delle violenze con la conseguente conclusione delle negoziazioni entro due anni.

Intanto, già dall’estate del 2002, il governo Sharon aveva iniziato la costruzione di una “barriera di separazione”: un complesso sistema di sbarramenti architettonici ed elettronici, lungo 725 km nel confine che separa Israele dalla Cisgiordania. L’obiettivo era quello di impedire l’ingresso di potenziali terroristi nello Stato ebraico: dal completamento del cosiddetto muro si è avuta una riduzione degli attentati del 90%. Questa costruzione è stata oggetto di forti critiche a livello internazionale, per la sua natura e per le aree su cui è stato costruito.

L’iniziativa politica del primo ministro israeliano Ariel Sharon si spinse oltre. Con decisione unilaterale, nel 2005, stabilì il ritiro da Gaza delle 8mila persone che vi abitavano. Alla fine dell’estate nessun israeliano risiedeva più nell’area. Gli effetti non furono però quelli desiderati: nelle elezioni per il Consiglio legislativo palestinese del 2006, a Gaza Hamas ottenne la maggioranza sul più moderato Fatah. Con i violenti scontri dei mesi successivi Hamas prese il pieno controllo della Striscia, da dove iniziò un fitto lancio di missili verso Israele.

Rimase interlocutore del governo israeliano solamente l’esecutivo di Fatah in Cisgiordania, guidato da Mahmud Abbas (Abu Mazen).

Lo scenario globale, negli stessi anni, offriva nuovi eventi significativi anche per il destino dell’ Stato d’Israele. In Iran, le elezioni del 2005 portarono alla vittoria Mahmud Ahmadinejad, che sarebbe rimasto alla presidenza della Repubblica islamica fino al 2013. Il suo conservatorismo, in un contesto già fortemente ostile agli Stati Uniti e a Israele, era condito da forti accenti antisionisti nonché negazionisti, tanto da minacciare più volte la distruzione dello Stato ebraico, mentre fra l’altro gli scienziati iraniani erano alle prese con gli esperimenti per la creazione di un ordigno nucleare. La storica alleanza con la Siria di Bashar Assad e con gli Hezbollah libanesi (il gruppo terrorista sciita presente in Libano), insieme alla fragilità di Afghanistan e Iraq colpiti dagli interventi bellici americani, provocarono una crescita delle tensioni e dell’instabilità nella regione, con crescenti sospetti da parte israeliana.

Nell’estate di quell’anno [2006] il rapimento di due giovani soldati [israeliani], e l’uccisione di alcuni commilitoni, insieme al lancio di razzi sulle città della Galilea, fu all’origine di una complessa azione militare israeliana nel Libano meridionale, l’operazione Change of Direction (“Cambio di Direzione”) […]. Nel corso di 34 giorni le basi di Hezbollah furono ripetutamente colpite dal fuoco israeliano mentre cruenti combattimenti ebbero luogo sul terreno e la stessa Beirut veniva bombardata. […] Mentre l’operazione militare era in corso, le milizie di Hezbollah fecero ancora una volta della Galilea del Nord il bersaglio delle migliaia di razzi katiuscia sparati da numerosi poligoni di fortuna[28].

Annapolis, Maryland, Stati Uniti d’America. Qui si svolse, nel novembre 2007, l’incontro tra il premier israeliano Olmert e quello palestinese Abu Mazen. 49 delegazioni, tutti i ministri della Lega araba nella stessa sala di Israele, sotto la regia diplomatica del Presidente Bush: anche questi ingredienti non sufficienti a dare un risultato politico significativo. La proposta israeliana del 2008, infatti, fu nuovamente rifiutata: consisteva in una impostazione territoriale sulla base dei confini del 1967, una condivisione di Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati nello Stato palestinese.

Olmert, Bush e Abu Mazen ad Annapolis nel 2007

Olmert, Bush e Abu Mazen ad Annapolis nel 2007

Fu questo l’ultimo negoziato degno di nota. Negli ultimi anni, infatti, poco dialogo e molta violenza. I confini tra i due Stati, il ritorno dei profughi, il riconoscimento di Israele, la questione della sicurezza, lo status di Gerusalemme restano problematiche aperte.

Nel frattempo, la Striscia di Gaza è diventata la roccaforte di Hamas, da dove il gruppo terrorista ha sparato con frequenza missili Qassam verso il sud di Israele. Questa azione terroristica ha provocato per tre volte la reazione militare dello Stato ebraico, con le operazioni Piombo Fuso (27 dicembre 2008-18 gennaio 2009), Pillar of Defence (14–21 November 2012) e Margine di Protezione (8 luglio-26 agosto 2014). Hamas peraltro non ha mai rinnegato né tantomeno cancellato l’articolo del suo statuto in cui prevede il non riconoscimento dello Stato d’Israele e la sua distruzione. Inoltre, dal 2006, secondo l’intelligence israeliana, vari gruppi di salafiti, jihadisti ed estremisti di vario genere si sono gradualmente infiltrati nella Striscia, fino a contare alcune migliaia di militanti.

L’insediamento di Barack Obama il 20 gennaio 2009 ha fatto sperare in una svolta, ma nel corso dei due mandati del presidente americano la situazione nell’intero Medio Oriente non ha conosciuto miglioramenti sensibili. Le cosiddette primavere arabe non hanno prodotto una democratizzazione del mondo islamico, ma piuttosto hanno generato spesso conflitti civili e lotte interne ai vari paesi coinvolti. Le questioni economiche, il pessimo rapporto tra il presidente Obama e il premier Netanyahu, il discusso accordo sul nucleare iraniano, sono stati i temi prevalenti in questi otto anni. Sono state più le nuove tensioni emerse che i problemi realmente risolti.

Da parte palestinese sono state tentate nuove iniziative. Nell’ottobre 2011, la Palestina (sebbene ad oggi non esista come stato sovrano) è stata ammessa all’UNESCO. Il 27 novembre 2012 il voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ammesso la Palestina con lo status di Stato osservatore non membro. Da quel momento sono arrivati numerosi riconoscimenti, anche da stati non arabi.

Parallelamente, anche il terrorismo palestinese ha assunto nuove forme. Dal 2014 si è iniziato a parlare di “intifada dei coltelli”: aggressioni con semplici utensili, come coltelli o martelli, agguati, investimenti con le auto nei confronti di passanti. Da Gaza, Hamas ha continuato a incitare alla violenza ed ha esultato per i morti israeliani; il leader dell’ANP Abu Mazen ha accusato Israele di calpestare i diritti dei palestinesi; per Netanyahu, è stato il premier palestinese a fomentare la tensione e a lasciare campo libero ai terroristi di Hamas. Una nuova ondata di violenza che tra le sue cause ha avuto anche un contesto internazionale che non ha favorito il processo di pace.

Oggi l’ideale sionista si è concretizzato e gli ebrei hanno potuto portare a compimento il loro sogno millenario mediante il processo di formazione di uno Stato, dopo secoli di Diaspora e di persecuzioni. La nascita di uno Stato palestinese, nel contempo, risulta ampiamente accettata e auspicata, pur non essendo stato individuato un chiaro percorso e avviati passi concreti per la sua effettiva esistenza. Nelle democrazie fuori dallo Stato d’Israele, gli ebrei godono dei diritti civili, politici e sociali, partecipando attivamente allo sviluppo della società e del Paese a cui appartengono. La scelta di una emigrazione verso lo Stato d’Israele costituisce un’opzione che fonda sulla libertà di qualunque cittadino di scegliere un altro Paese in cui andare a vivere.


Herbert Pagani , Arringa per la mia terra

[1] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 198.
[28] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 209.

Paragrafo precedente

Paragrafo successivo

Share: