La preghiera e il suo luogo
Il luogo della preghiera per l’ebreo è ovunque, la sinagoga è la sede di incontro di più persone che condividono un’etica, una fede, una Tradizione. La sinagoga rappresenta, per questo, il fulcro della vita di ciascuna comunità ebraica. Essa è sì luogo di preghiera, ma è anche – e non secondariamente – luogo di studio della Torah e luogo di incontro e di scambio.
Il termine che in ebraico sta a significare sinagoga, betkenéset, significa infatti letteralmente “casa di riunione”.
La sinagoga è un’istituzione portante nella vita di ogni comunità ebraica. Secondo un’antica tradizione, esistevano delle sinagoghe sin dai tempi dei patriarchi, ma ciò non è supportato da alcuna prova concreta. Quasi sicuramente l’istituzione è nata durante l’esilio del popolo ebraico in Babilonia, 586 anni prima dell’era volgare[34]. Il popolo ebraico si è trovato lontano dalla propria terra e cercava delle modalità per incontrarsi, per riunirsi e cementare in qualche modo la propria identità. Così è nata la sinagoga, intesa come istituzione dove gli ebrei di una certa località si trovavano per studiare, per stare insieme, per dibattere insieme i loro problemi e naturalmente anche per pregare. La stessa etimologia greca rimanda a questo senso di riunione: siun, con, e ago, condurre, quindi condurre insieme.
Gli elementi fondamentali perché esista una sinagoga sono limitati. La sua pianta risponde ai principi e alla logica enunciata.
In primis è essenziale la presenza dell’Aròn ha kodesh (l’Arca sacra) in cui sono custoditi i rotoli della Torah, ricoperti di stoffe e di arredi preziosi. Esso è solitamente – e ove possibile – posizionato in modo da rivolgersi verso Gerusalemme. Al di sopra di questo “armadio” si trova un lume perenne (ner tamid). Esso ricorda il lume che si trovava nel Santuario e allo stesso tempo è simbolo della forza della Legge Eterna.
Di fronte all’Aron si trova – spesso in posizione centrale e rialzata nella sinagoga – la Tevà, vale a dire il luogo da cui il ministro di culto recita la funzione. L’officiante non necessariamente deve essere un rabbino, può essere semplicemente un uomo che, avendo celebrato l’ingresso nella comunità religiosa con la cerimonia del Bar Mitzvà a 13 anni, sia in grado di guidare la preghiera e rispettoso dei precetti ebraici.
Inoltre, la struttura della sinagoga appare intimamente legata alla storia degli ebrei.
Ai tempi biblici, il solo Santuario di Gerusalemme era riconosciuto come luogo di culto ma, dopo l’esilio babilonese, fu necessario creare nuovi luoghi in cui pregare e riunirsi.
Se le Chiese condividono in gran parte un’architettura sempre uguale a partire dall’epoca romana, non altrettanto possiamo dire delle sinagoghe, che non presentano piante o strutture architettoniche particolari, e che possono sorgere anche in un semplice appartamento. Non esiste quindi quella che si potrebbe definire un’architettura sinagogale. Esse hanno assunto caratteristiche e peculiarità differenti a seconda delle epoche storiche e dei luoghi della Diaspora in cui sono sorte.
Anche a ciò è connesso il fatto che, nel corso delle cerimonie, come per esempio durante la ricorrenza dello Yom Kippùr [35], il rapporto tra il fedele e Dio è un rapporto diretto, che non conosce intermediari posti in una posizione di preminenza.
Questo è si vero, ma è altrettanto vero che, per recitare alcune preghiere si richiede il minyan (numero, quantità, conteggio) ossia la presenza di almeno 10 uomini che abbiano raggiunto la maggiore età religiosa.
Vi sono infatti dei momenti particolari di preghiera nei quali non è sufficiente la voce dei singoli, ma è necessaria la presenza di questo particolare quorum. Il che riveste un significato particolare.
La necessità di raggiungere questo quorum insegna l’importanza del singolo nella collettività: significa sia che il singolo fedele non è sufficiente per recitare alcune preghiere, sia che nove ha bisogno di uno, poiché nove non è sufficiente senza il decimo. Rappresenta l’importanza dell’appartenenza a una collettività.
Caratteristica ulteriore è quella della divisione tra gli spazi in cui si trovano gli uomini e quelli in cui si trovano le donne. Solitamente a queste è riservata un’area sopraelevata (il cosiddetto matroneo) ma possono anche riunirsi nella stessa area degli uomini, da cui sono separate da una grata (la mehitzà). Le forme e l’altezza di tale grata possono variare molto di sinagoga in sinagoga. La grata può presentare dei fori o esserne priva.
Il motivo principale dell’esistenza di questo separatorio può essere rinvenuto nella necessità della concentrazione nella preghiera, che verrebbe compromessa dalla promiscuità di generi all’interno di un medesimo spazio.
Per molti versi, l’Emancipazione – ossia il processo che consentì agli ebrei di godere dei diritti civili, avvenuto in diversi paesi dell’Europa principalmente nel corso dell’Ottocento – ha rappresentato lo spartiacque tra due diversi modi di concepire l’idea stessa di edificio sinagogale.
Prima dell’Emancipazione gli ebrei erano spesso in condizione di praticare la propria fede di nascosto, e ragioni di sicurezza imponevano di servirsi di stanze o appartamenti camuffati e non riconoscibili dall’esterno. Molte altre sinagoghe, erette invece dopo l’Emancipazione, hanno una pianta e delle caratteristiche – anche in termini di grandiosità ed opulenza – che le avvicinano alle grandi chiese o alle moschee. L’intento è stato probabilmente quello di dimostrare che anche i luoghi di culto ebraici potevano vantare magnificenza e ricchezza ed essere ammirati a livello cittadino.
Fino al secolo scorso, in Italia la sinagoga era indicata con il termine “Scòla”: essa era ed è, come dicevamo, per gli ebrei non solo luogo di culto ma vero e proprio centro della vita comunitaria: luogo di incontro e di confronto, di riunione, di studio.
Le sinagoghe possono essere sistemate sia in strutture grandiose sia in un’unica stanza in un edificio qualunque. Infatti i servizi di culto possono aver luogo ovunque; un miniàn di ebrei può riunirsi sia in un interno sia all’aperto per pregare insieme, e il servizio è consacrato come se si svolgesse nella più elaborata delle strutture. Ma alcuni aspetti sono comuni a praticamente tutti gli spazi di sinagoghe permanenti[36].
Le Scole, a differenza delle chiese, non servirono solamente come case d’orazione e di venerazione, ma ebbero un arco di funzioni che cambiano da secolo a secolo e da diaspora a diaspora. (…)
Nella chiesa esiste un concetto architettonico basilare continuo dall’epoca romana fino al secolo scorso, che deriva dalla Basilica romana; nelle scole invece quasi impossibile trovare un tale denominatore comune; ogni gruppo, ogni diaspora, ogni secolo ha le sue caratteristiche, crea la sua soluzione architettonica; e la somiglianza fra l’una e l’altra è appena percettibile[19].
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Dio, secondo la religione ebraica, non è raffigurabile e non è tangibile, per questo non ne è possibile alcuna rappresentazione.
Nessuna immagine concreta e nessuna forma possono rappresentare, secondo l’ebraismo, questa pura Essenza spirituale, questa Coscienza delle coscienze.
Tutto ciò che pretendesse fissare in immagini l’idea di Dio sarebbe per l’ebraismo idolatria.
Dio dev’essere intuito, conosciuto; può penetrare il nostro spirito, ma non divenire oggetto di figurazione materiale. Nessun’altra religione ebbe di Dio l’idea pura che ne ebbe Israele. Essa è la vera religione, poiché è la più spoglia di forme passeggere, la più vicina allo spirito, la più capace di astrarre dalle forme materiali per mantenersi nel mondo dell’idea (…)
L’ebraismo volle liberare la coscienza religiosa da qualsiasi forma tangibile e limitata, per sollevarla, senza stadi intermedi, direttamente e immediatamente, fino all’astratto e puro ideale che non ha figura. L’ <<incorporeità>> di Dio cioè la Sua perfetta spiritualità è uno dei caratteri fondamentali e specifici dell’ebraismo. È l’Assoluto ideale in cui poi si fonderà l’Assoluto morale[38].
Nell’ebraismo non c’è bisogno del supporto dell’arte o dell’architettura per consentire a un ebreo di rivolgersi a Dio; uno spazio disadorno avrà la stessa idoneità di una sala dai più fini ornamenti.
Persino il nome di Dio è per gli ebrei impronunciabile: esso è indicato nella Bibbia con un tetragramma in cui non compaiono vocali e che pertanto non può essere letto se non come serie di emissioni di respiro: quasi che l’impossibilità di pronunciare il nome rappresentasse l’impossibilità dell’uomo ad avvicinarsi troppo alla essenza divina.
È per il suddetto motivo che non è possibile scorgere, all’interno di un luogo di culto ebraico, alcuna raffigurazione di Dio.
Ma c’è una ragione ulteriore nell’assenza di immagini, disegni o affreschi all’interno delle sinagoghe: essi distrarrebbero infatti l’uomo dalla preghiera e dallo studio. Per questo i motivi ricorrenti all’interno delle sinagoghe sono solitamente quelli floreali o quelli geometrici.
Per entrare in una sinagoga, è necessario che gli uomini indossino la kippah (plurale kippòt), ), il tradizionale copricapo. Essa simboleggia la coscienza della presenza di un’entità superiore al di sopra della propria testa. Rappresenta quindi la razionale consapevolezza della limitatezza dell’essere umano di fronte a Dio.
Le donne non hanno l’obbligo di indossare la kippah, probabilmente perché avvertono l’esistenza di un essere superiore senza bisogno di simboli che glielo ricordino.
Negli ambienti più ortodossi le donne sono solite indossare un cappello dopo essersi sposate; in questo modo il loro status risulta immediatamente riconoscibile, e questo divine un segno di rispetto nei confronti del proprio marito.
All’interno della Sinagoga si celebrano alcuni dei momenti cruciali della vita di un ebreo: dalla celebrazione della maggiore età religiosa a quella del matrimonio, ma non il funerale, che viene celebrato al cimitero:
È rigorosamente vietato portare i morti nell’interno della Sinagoga a meno che non si tratti di maestri particolarmente importanti. In Italia si usa, in casi particolari, portare il feretro davanti alla porta o nel cortile della Sinagoga[39].
[34] Si veda l’unità sulla Diaspora, paragrafo Le tappe di una storia – L’età antica.
[35] Si vedano le unità sul Calendario ebraico e il paragrafo “Ricorrenze, celebrazioni, festività”.
[36] Roy A. Rosenberg, L’ebraismo. Storia, pratica, fede, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995, p. 74
[37] David Cassuto, Le caratteristiche del tempio Italiano durante i secoli, in Il Centenario del Tempio Israelitico di Firenze. Atti del convegno, Giuntina, Firenze, 1985, p. 17
[38] Dante Lattes, “L’idea d’Israele (apologia dell’ebraismo)”, La Rassegna Mensile di Israel, Roma, 1951, p. 18
[39] Regole ebraiche di lutto, a cura degli Uffici Rabbinici delle Comunità Ebraiche di Roma e Milano, Roma 2007, p. 29