Le difficoltà e i successi di un percorso
Non era tuttavia semplice cancellare duemila anni di ostilità. Numerose furono le battute d’arresto: già nel marzo 1965, il Rabbino Capo di Roma Elio Toaff rivolse una protesta poiché Paolo VI, nella settimana della Passione, aveva fatto un’omelia in cui riesumava l’accusa di deicidio. Negli anni ’80, sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II, l’apertura di un convento di monache carmelitane nei pressi del campo di sterminio di Auschwitz suscitò dure polemiche. Nel 1987, la beatificazione e la successiva santificazione di Edith Stein provocarono amarezza e critiche: uccisa ad Auschwitz, veniva proposta come martire della fede cattolica, a cui si era convertita da giovane.
Ma parallelamente vi furono tanti passi di avvicinamento e numerosi gesti simbolici.
Il pontificato di Karol Wojtyla (1978-2005) ha sicuramente inciso in maniera determinante, per il momento storico in cui si è verificato e per le stesse origini di questo Papa. Giovanni Paolo II infatti trascorse la sua gioventù in una piccola città in Polonia, Wadowice, dove un quarto della popolazione era di ebrei. Questi suoi primi contatti furono destinati a riemergere successivamente e a renderlo protagonista con grandi gesti verso l’ebraismo: fu il primo papa a visitare una sinagoga, quella di Roma, nel 1986; effettuò uno storico viaggio in Israele (2000); pregò per le vittime della Shoah ad Auschwitz Birkenau (1979).
Il 13 aprile 1986 fu una data chiave: un Pontefice entrò in una sinagoga per la prima volta in quasi 2000 anni di storia. Giovanni Paolo II fu ospite nel Tempio di Roma, invitato dal Rabbino Capo Elio Toaff. Proprio quest’ultimo rappresentò una figura chiave nella costruzione di questo dialogo (non a caso il tema di questa unità didattica è dedicato proprio a lui). Toaff ebbe un ruolo fondamentale per l’ebraismo italiano: Rabbino ad Ancona, poi a Venezia dal 1946 al 1951, ma soprattutto Rabbino Capo di Roma dal 1951 al 2001. Fu impegnato nella difficile ricostruzione della comunità dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la Shoah. Si distinse anche per la fervente attività sionista, avviando, insieme a Raffaele Cantoni e ad altri attivisti, associazioni culturali e assistenziali per accogliere gli ebrei profughi dell’Est in attesa di emigrare e favorendo i loro spostamenti verso il mandato britannico di Palestina. Riuscì nell’impresa di avviare una ripartenza dell’ebraismo italiano sotto il profilo religioso, sociale, economico, demografico, culturale, ma si impegnò anche e con successo nel permettere all’ebraismo di recuperare la funzione di componente importante, anche se minoritaria, della società italiana di allora. In altri termini, raccolse tutte le complesse sfide proposte dalla seconda metà del XX secolo. Inclusa, naturalmente, quella del dialogo con il mondo cattolico, che proponeva per la prima volta atteggiamenti inediti.
Il primo incontro con Giovanni Paolo II ebbe luogo l’8 febbraio 1981 nella canonica di San Carlo ai Catinari. Era stato il Papa, in visita a quella Chiesa al confine con il Ghetto, a esprimere il desiderio di incontrarlo. Rav Toaff fu colto di sorpresa, ma dopo aver riflettuto decise di accettare[36]:
Il doloroso passato dell’umiliante clausura nel ghetto, caratterizzato per noi ebrei di Roma dalla sofferenza e dalla emarginazione, seppure non può e non deve essere dimenticato, perché è nelle radici degli ebrei di questa città, e fa parte della loro storia come dei loro sentimenti, certamente deve cedere il passo di fronte alla nuova realtà che, a partire dal Concilio Vaticano II, sta riscoprendo i valori del giudaismo, raccomandando ai cristiani il ritorno alle loro origini per la ricerca della loro più profonda identità[37].
Il segno indelebile lasciato da Toaff in merito a questo nuovo corso fu appunto l’apertura delle porte del Tempio Maggiore di Roma a Giovanni Paolo II, primo pontefice a visitare una sinagoga. Quello di Wojtyla fu un gesto rivolto a tutto l’ebraismo e nel contempo a tutto il mondo cristiano; fu un momento storico in grado di dare nuovo impulso al cammino del dialogo, di enorme impatto emotivo e mediatico.
Alle 17,15 Giovanni Paolo II fece il suo ingresso nel giardino del Tempio, venne verso di me a braccia aperte e mi abbracciò. E mentre lui si accingeva a entrare nella Sinagoga gremita e a compiere quel gesto di riparazione che doveva ricomporre una frattura di secoli, io mi sentii schiacciare dal peso di tutto il dolore che il mio popolo aveva patito in duemila anni. […] Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come in sogno, il papa al mio fianco, dietro cardinali, prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della Sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci volgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l’applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me, ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l’importanza di quel momento[38].
L’evento del 13 aprile si svolge nella sostanza secondo il copione concordato, ma con una intensità che travolge i limiti cerimoniali negoziati con tanta cura. D’altronde le tre personalità incaricate di pronunciare i discorsi e l’assemblea sono troppo consapevoli dell’importanza storica dell’evento per rimanere incartati dal protocollo che si sono assegnati. Protocollo che prevede l’arrivo del corteo alle 17 davanti al Tempio e che viene subito violato da un primo abbraccio fra il rabbino capo, compreso come tanti del peso di sofferenze subite con cui egli apre le braccia, e il papa. […] Poi l’ingresso in sinagoga di Toaff e Wojtyła alla pari, fra gli applausi dell’assemblea; e infine i tre discorsi di grande peso.
Saban, il presidente, parla per primo. Evoca i «secoli difficili e sofferti» della vita ebraica nella Roma cristiana: il rogo del Talmud, il ghetto, la privazione delle libertà, e poi il nesso storico fra la Shoah, il papato di Roncalli e il Concilio. Il presidente dice al papa che nel 1943 quello che accadeva su una sponda del Tevere “non poteva essere ignorato di là dal fiume, come non poteva essere ignorato quanto stava succedendo altrove sul continente europeo. Tuttavia numerosi furono i nostri fratelli che trovarono aiuto e rifugio, attraverso coraggiose iniziative in quei conventi e monasteri che per tanti secoli avevano imparato a temere. […]” Prosegue manifestando «l’aspirazione a vedere cadere alcune reticenze nei confronti dello Stato d’Israele», in vista della pacificazione della regione e come «ulteriore passo nel “fraterno dialogo” di cui parla Nostra aetate». […] Il discorso di Rav Toaff […] entra nel terreno delle relazioni con Israele ricordando la promessa ad Abramo della terra e la profezia del ritorno come «premio per aver seguito le vie del Signore»; collegandolo storicamente alla Shoah e non al sionismo originario afferma che “questo ritorno si sta verificando: gli scampati dai campi di sterminio nazisti hanno trovato in terra d’Israele un rifugio e una nuova vita nella libertà e nella dignità riconquistata. […]” Giovanni Paolo II soddisfa quasi tutte le richieste implicite o esplicite in di chi lo riceveva: evoca quei temi – l’eredità roncalliana, il concilio, il wording di Nostra aetate, la confessione di colpa – che avevano fatto parte della preparazione della visita e del discorso stesso. All’inizio del discorso il pontefice sottolinea perciò che «il merito prevalente» era stato di Rav Toaff. […] C’è una istanza di sincerità, di immediatezza disarmata, di resezione d’ogni secondo fine che viene colta e salutata con applausi lunghi e calorosi. È questa fiducia che rende plausibile la definizione degli ebrei come «fratelli maggiori»: il titolo più ambiguo della tradizione biblica ed evangelica, nel quale tutti percepiscono non un mascherato supersessionismo, ma il contrario: un riconoscimento di dignità, una reversione di quella teologia della minorità perpetua dell’ebreo che lo consegnava in balia dei cristiani nel diritto canonico classico, una attestazione di rispetto che non poteva che andare oltre le parole. Al netto richiamo conciliare degli interlocutori il papa risponde commentando tre punti chiave di Nostra aetate: i) l’intrinsecismo del rapporto fra chiesa ed ebraismo (che dunque ne definisce anche la radicale asimmetria), ii) la cancellazione del pregiudizio sulla colpa ebraica (con il richiamo del giudizio di Dio sui discriminatori), iii) lo scardinamento di ogni teologia della reiezione (e l’affermazione della irrevocabilità dell’alleanza). Questi punti dal valore «perenne» sono stati, spiega il papa, strumentati dai documenti del 1974 e del 1985 prodotti dalla commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo ai quali il pontefice offre il proprio endorsement. Nell’ultima parte del suo discorso il vescovo di Roma riprende il tema della comunanza valoriale (vita, libertà, diritti, giustizia, pace e poi il decalogo) fra ebrei e cristiani in modo molto rapido[39].
Sorgente di vita, St 2014/15, servizio “Il secolo di Toaff” del 03/05/2015.
La visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma segnò un passo epocale, ma rimaneva ancora un importante nodo da sciogliere: il riconoscimento da parte del Vaticano dello Stato d’Israele, passaggio ritenuto essenziale per il riconoscimento degli ebrei nella loro identità non solo religiosa, ma anche sociale e culturale.
Il viaggio di Paolo VI nel 1964 aveva segnato un primo passo, ma aveva lasciato più ombre che luci. Così, anche per una chiarificazione dei rapporti tra Vaticano e Israele fu necessario attendere il Pontificato di Giovanni Paolo II. Solo nel dicembre 1993, infatti, Stato di Israele e Santa Sede firmarono l’ “Accordo fondamentale”, che sancì il reciproco riconoscimento e la definitiva normalizzazione dei rapporti, prevedendo di stabilire piene relazioni diplomatiche entro il successivo mese di maggio.
Sorgente di vita, St 2013/14 servizio “A Piccoli Passi” (ventennale accordo Israele Santa Sede) – 29/12/2013
L’Accordo Fondamentale fu la premessa al viaggio di Giovanni Paolo II in Israele nel maggio 2000: il Papa visitò il Muro del Tempio di Gerusalemme, dove inserì un biglietto con le sue preghiere nelle fessure secondo la tradizione degli ebrei; chiese perdono per le persecuzioni contro il popolo ebraico e colpì leader e opinione pubblica di tutto il mondo per la solennità e l’emotività dei suoi gesti. Ehud Barak, allora primo ministro israeliano, riconobbe il profondo significato dell’azione di Papa Wojtyla affermando: “Nessuno ha fatto di più, è il momento più alto nella riconciliazione”.
Il processo avviato da Giovanni Paolo II è stato seguito dai suoi successori. Benedetto XVI (2005-2013) negli 8 anni del suo pontificato ha fatto gli stessi gesti, anche se in una maniera inevitabilmente differente, visto il nuovo contesto in cui si inserivano. Ancora durante il suo Pontificato sono però emersi nuovi attriti: la riesumazione della preghiera del venerdì santo, la revoca della scomunica dei lefebvriani (che includeva la revoca della scomunica nei confronti del vescovo negazionista Williamson), la ripresa del processo di beatificazione di Pio XII. Proprio quest’ultimo elemento ha provocato delusione e disappunto nel mondo ebraico, espresso da alcune persone comuni in occasione della visita alla Sinagoga di Roma del 17 gennaio 2010. Anche il viaggio in Israele del 2009 è avvenuto in un contesto mediorientale profondamente mutato: non a caso, Papa Ratzinger auspicò il raggiungimento dell’unità e della pace in Medio Oriente. Anch’egli compì gesti simbolici rimasti nella storia, come quando piantò un albero nel giardino della residenza del presidente Peres.
Dall’aprile 2013, si è aperto ancora una volta un nuovo capitolo, con l’ascesa al soglio pontificio di Jorge Bergoglio, il quale ha intrapreso una strada sulla scia dei suoi predecessori. Papa Francesco ha degli amici personali ebrei sin da quando era arcivescovo di Buenos Aires, su tutti sicuramente Abraham Skorka. Questo rabbino argentino di origini polacche, amico di vecchia data di Bergoglio, con cui ha condiviso esperienze e iniziative, è anche l’autore della prefazione dell’autobiografia del pontefice.
Papa Francesco ha voluto seguire in fretta le orme dei suoi predecessori: nel maggio 2014 si è recato in visita in Israele, facendo seguire un incontro, domenica 8 giugno, nei giardini del Vaticano, con il Presidente israeliano Shimon Peres e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, oltreché il patriarca ortodosso Bartolomeo, realizzando così l’incontro di preghiera proposto dal Papa durante il suo viaggio in Medio Oriente. Il tutto si svolse all’aperto, lontano da ogni simbologia e liturgia religiosa. Parole di speranza, note toccanti, abbracci, strette di mano; tre invocazioni provenienti da tre mondi diversi. Un ritrovo solenne che ha però anche suscitato delle perplessità: il Presidente Peres era alla fine del suo mandato, il Presidente dell’ANP Abu Mazen condizionato dalla coalizione con gli estremisti di Hamas. Un’iniziativa che non è stata incisiva a livello politico, ma che ha avuto un profondo significato simbolico.
Sorgente di vita, St 2013/14, servizio “Il viaggio di Francesco” (viaggio Papa Francesco Israele) – 01/06/2014
Il 17 gennaio 2016 (curiosamente lo stesso giorno, 6 anni dopo, di Papa Ratzinger) la visita alla Sinagoga di Roma. Forse la vera notizia sarebbe stata se questo incontro non ci fosse stato, ma resta un ulteriore seme gettato per favorire il dialogo interreligioso.
Il dialogo dunque continua ancora oggi, con molte iniziative in tutto il mondo, a livello istituzionale e per via informale. Seminari, lezioni, dibattiti, scambi culturali, attività a livello locale e internazionale; nelle facoltà teologiche oltre alla Bibbia si studia filosofia, storia e lingua ebraica, mentre case editrici cattoliche pubblicano testi e letteratura ebraica. Resta però ancora molto da fare, a partire da una maggiore conoscenza reciproca delle tradizioni. Difficoltà che persistono anche nei rapporti Vaticano-Israele: tra i vari problemi concreti, infatti, restano lo status di Gerusalemme, la giurisdizione sui luoghi sacri, i diritti delle comunità cristiane, le questioni fiscali, senza trascurare naturalmente il conflitto tra israeliani e palestinesi[40].
Il dialogo ebraico-cristiano si basa sulla dichiarazione Nostra Aetate, la quale ha posto per la prima volta basi concrete per ulteriori importanti sviluppi[41], che mostrano come a livello istituzionale si possano creare le precondizioni per favorire un certo lavoro, ma poi deve seguire un impegno quotidiano che si sviluppi in ogni settore.
[36] Marco Morselli, Il contributo di Rav Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano, in Anna Foa (a cura di), Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia, Silvio Zamorani editore, Torino, 2010, p. 86.
[37] Elio Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Mondadori, Milano 1987, p. 228, cit. in Marco Morselli, Il contributo di Rav Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano, in Anna Foa (a cura di), Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia, Silvio Zamorani editore, Torino, 2010, p. 86.
[38] Elio Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Mondadori, Milano 1987, p. 238-239, cit. in Marco Morselli, il contributo di Rav Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano, in Anna Foa (a cura di), Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia, Silvio Zamorani editore, Torino, 2010, p. 86.
[39] Alberto Melloni, Rav Toaff e la ricezione del Concilio. Il papa e il Vaticano II nella sinagoga di Roma, Anna Foa (a cura di), Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia, Silvio Zamorani editore, Torino, 2010, p. 129-132.
[40] Sergio Minerbi, Una relazione difficile. Vaticano, ebraismo, Israele, Bonanno, Roma, 2016.
[41]http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/relations-jews-docs/rc_pc_chrstuni_doc_20151210_ebraismo-nostra-aetate_it.html