Le origini del Sionismo

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La storia degli ebrei nel Medioevo e in età moderna è particolarmente articolata e complessa[9], nonché caratterizzata costantemente da limitazioni di libertà laddove non persecuzioni. Oltre alla formazione di una coscienza nazionale in senso generico, agli ebrei occorreva recuperare anche qualcos’altro, ossia una completa acquisizione dei diritti fondamentali che facesse da preludio a una riscoperta di alcuni aspetti della propria identità e a una valorizzazione degli stessi. Con l’emancipazione, l’acquisizione dei diritti che in Europa occidentale avviene dopo la Rivoluzione francese, sulla scia dei valori proposti dall’illuminismo e dal romanticismo (fenomeni che ebbero una certa presa anche nel mondo ebraico), l’obiettivo primario non era più solo sopravvivere, ma gli ebrei potevano diventare padroni del loro destino anche da un punto di vista politico[10]. Mentre si sviluppava in ambito ebraico l’impegno verso la nascita degli stati nazionali, si faceva strada, ancor prima della nascita del sionismo, tra politici e intellettuali, ebrei e non, l’idea di creare uno Stato ebraico in Palestina.

Il principe Potëmkin, l’imperatore Napoleone e il presidente degli Stati Uniti John Adams, scrive Montefiore, «credevano tutti nel ritorno degli ebrei a Gerusalemme al pari dei nazionalisti polacchi e italiani e naturalmente dei sionisti cristiani in America e in Gran Bretagna». Di qui nacque il sionismo[11].

Napoleone Bonaparte

«Vorrei tanto che gli ebrei tornassero in Giudea come nazione indipendente», aveva scritto il secondo presidente americano, John Adams. Nel 1819, due giovani missionari di Boston, Levi Parsons e Pliny Fisk, si trasferirono, nel nome di un «dovere spirituale», a Gerusalemme. Lo stesso fece nel 1837 Harriet Livermore, figlia e nipote di deputati del New England, dopo aver predicato per anni a sioux e cheyenne per convincerli che erano eredi delle tribù di Israele e che avrebbero dovuto seguirla nella terra di Sion[12].

Il Bonaparte [Napoleone], nel 1799, avanzò spedito verso la città. Niente si frapponeva tra Napoleone e Gerusalemme, scrive Montefiore, «tranne il Macellaio». Il Macellaio, Jazzar, era Ahmet Pasha, il signore della guerra della Palestina ottomana. […] Jazzar si era fatto la fama di Macellaio mutilando chiunque sospettasse di slealtà. […] Allorché i francesi assediarono Giaffa, il porto di Gerusalemme, la città fu subito nel panico, una folla saccheggiò i monasteri cristiani e i monaci mobilitarono a loro difesa i gerosolimitani. Per parte sua, Napoleone non fu meno crudele. Bonaparte e le sue truppe «consideravano chiaramente la spedizione contro i musulmani al di fuori delle regole di un comportamento civile». […] Il futuro imperatore decise che, prima di Gerusalemme, avrebbe dovuto conquistare Acri e poi recarsi «di persona a piantare l’albero della Libertà nel punto esatto in cui Cristo aveva sofferto». […] Il 16 aprile 1799, Napoleone sconfisse la cavalleria di Ahmet nella battaglia del monte Tabor, e quattro giorni dopo emanò un proclama datato (falsamente) da Gerusalemme (che non aveva ancora conquistato). «Bonaparte, comandante in capo degli eserciti della Repubblica francese in Africa e in Asia», si rivolgeva, «ai legittimi eredi della Palestina, unica nazione degli ebrei che sono stati privati della terra dei loro padri da millenni di bramosia di conquista e di tirannia» per dire loro: «Levatevi con gioia, voi esuli, e prendete possesso del patrimonio d’Israele. Il giovane esercito ha fatto di Gerusalemme il mio quartier generale e fra pochi giorni si trasferirà a Damasco in modo che possiate rimanere lì (a Gerusalemme, ndr) a governare». Si può dire, ha scritto Jacques Attali, che il Bonaparte fu un sionista ante litteram. E la storia di Israele avrebbe potuto cominciare di lì. Ma Jazzar, grazie anche all’aiuto del commodoro britannico Sidney Smith, respinse ben tre attacchi dell’armata napoleonica. I francesi lasciarono sul campo 1.200 morti e 2.300 feriti. «In Terra Santa», commentò il generale francese Jean-Baptiste Kléber, «abbiamo commesso enormi peccati e grandi stupidaggini»[13].

Nel 1836 un rabbino ashkenazita prussiano, Zvi Hirsch Kalischer, cercò fondi per finanziare una nazione ebraica e in seguito ha raccontato la sua storia nel libro “Cercando Sion”. Poi un rabbino sefardita di Sarajevo, Rabbi Yehuda Hai Alchelai, avanzò la proposta che gli ebrei nel mondo islamico eleggessero dei leader e acquistassero della terra in Palestina. Nel 1862 il rabbino Kalischer stabilì che la restaurazione messianica attesa dal popolo ebraico non si sarebbe verificata per miracolo: «Gli uomini», scrive Cardini, «avrebbero dovuto cooperare alla sua realizzazione; il rientro degli ebrei nella Terra Promessa, in Eretz Israel, sarebbe stato il pegno e il segno della rinascita»[14].

C’era nella seconda metà del diciannovesimo secolo un moltiplicarsi, dovunque, di programmi e intenti sionisti, o per meglio dire proto sionisti. C’era la vitalità del cassidismo (la religione del cuore) e c’era un risveglio della coscienza nazionale ebraica attraverso la cultura giudaica[15].

La figura più significativa tra i cosiddetti precursori del sionismo fu Moses Hess. Filosofo hegeliano, nato in Germania ma vissuto a lungo a Parigi […], socialista vicino a Marx, anche se non marxista, Hess pubblicò nel 1862 il suo “Roma e Gerusalemme”, in cui sosteneva che gli ebrei dovevano seguire la rinascita degli altri popoli oppressi[16].

Nel corso del XIX secolo si sviluppa dunque un processo fatto di varie tappe. La genesi del movimento nazionale ebraico parte da un rinascimento culturale, che ha le sue basi nella Haskalà, il cosiddetto illuminismo ebraico, una prima risposta al pensiero settecentesco che proponeva l’integrazione della minoranza ebraica nella società moderna. Fondatore e principale esponente ne fu Moses Mendelssohn (1729-86) e numerosi gli intellettuali che vi aderirono[17].

Tra il 1880 e la Prima Guerra Mondiale si concretizzò gradualmente l’attivismo politico per il ritorno a Sion, preludio al nazionalismo di massa con il sionismo organizzato che raggiunse il suo apice nel periodo interbellico[18].

Gli ebrei, come gli altri popoli oppressi, trovarono la soluzione nell’idea della liberazione nazionale. […] Si rifecero a ricordi storici d’indipendenza politica e religiosa. Nel 1862, il rabbino Zvi Hirsch Kalischer aveva scritto un libro per dimostrare che la promessa messianica della Bibbia significava la riconquista dell’indipendenza nazionale ebraica nell’avita terra d’Israele. Moses Hess, nel suo libro “Roma e Gerusalemme”, auspicò la fondazione di uno stato ebraico basato su principi etici come la soluzione più equa e radicale del problema ebraico. Kalischer e Hess non riuscirono a organizzare un movimento che sostenesse le loro idee, ma in questi due uomini si trovavano giù rappresentate le due correnti che diedero origine al sionismo: il messianismo e l’idealismo sociale. Un terzo contributo fu l’opuscolo di Leon Pinsker, dal sottotitolo “Ammonimento di un ebreo russo ai suoi confratelli”, che diventò uno dei testi canonici del sionismo. […] Pinsker cambiò il proprio atteggiamento sul destino degli ebrei in seguito all’ondata di pogrom e alla politica antiebraica del governo russo interno al 1880. Nel suo opuscolo “Autoemancipazione” Pinsker fece una diagnosi del problema ebraico e prescrisse come rimedio la creazione di una «base» territoriale, che in seguito fu identificata con la Palestina. […] Non può sorprenderci che l’idea di una nazionalità ebraica mettesse radice così rapidamente fra gli ebrei dell’impero russo[19].

I precursori del sionismo identificavano nella terra di Sion il luogo di una ricomposizione esistenziale dove, alla trasformazione spirituale, derivante dall’essere tornati nella “terra dei padri”, si sarebbe accompagnata la rigenerazione professionale e lavorativa, realizzata soprattutto attraverso il rapporto diretto con la terra, interdetto nell’Europa orientale ed estraneo alla vita urbana in quella occidentale. Il nesso fisico con la terra, da possedere e da coltivare, divenne quindi da subito uno dei motivi di fondo del primo sionismo. In questo solco si inscrivono movimenti come il Bilu o gli Hovevei Zion, gli “amanti di Sion”, gruppi intellettuali, costituiti perlopiù da giovani studenti, esclusi dai circuiti universitari russi e costretti a frequentare gli atenei europei, che si incaricarono di avviare la promozione dell’immigrazione ebraica nella Palestina ottomana[20].

Quando, nella seconda metà del XIX secolo, il nazionalismo ebraico si afferma, non assume necessariamente il volto del «palestinismo», ma si declina in tre forme: il «palestinismo», l’autonomismo e il territorialismo. Gli stessi sionisti, per paura di sembrare romantici e/o religiosi, si definiscono innanzitutto territorialisti. Le tre correnti hanno come denominatore comune l’affermazione dei diritti degli ebrei all’autodeterminazione[21].

Il dibattito nel mondo ebraico è da subito fervente, sia tra i laici che tra i religiosi. Sono i prodromi delle diverse correnti (politiche, religiose, sociali) che attraverseranno il sionismo, o che vi si opporranno.

Negli anni Cinquanta del XIX secolo molti rabbini sono a favore dell’idea nazionale ebraica, sostenitori del proto sionismo, temono l’assimilazione e al tempo stesso l’edulcorarsi dell’ebraismo. Ai loro occhi, il ritorno a Sion e la restaurazione del Tempio sono parte costitutiva dell’ebraismo. […] La maggioranza del mondo rabbinico si mostra però sempre più ostile al nazionalismo ebraico. I grandi rabbini di Vienna, di Berlino e di Londra, così come quello di Costantinopoli […] oppongono al sionismo un cortese rifiuto. Se a motivare certi rifiuti è il timore, […] non è quella l’unica causa. Il mondo ortodosso fatica, infatti, a capire un nazionalismo secolare che pretende di riportare gli ebrei alla normalità. L’ebraismo ortodosso si concepisce come una fede, come una comunità, non come una nazione nel senso moderno del termine[22].

Il mondo ebraico dunque si divide. Nello stesso tempo, il sionismo e i suoi antesignani devono fare i conti con realtà politiche non semplici. I territori mediorientali dove sorgeva l’antico Stato d’Israele erano sempre stati sottoposti a dominazioni straniere di carattere imperiale che non avevano permesso di prendere in considerazione l’idea di costituirvi uno Stato-nazione. Bizantini, arabi, mamelucchi, turchi si erano avvicendati nel controllo della regione e non avevano favorito il sorgere di movimenti nazionali. Il lento declino dell’Impero Ottomano (secondo alcuni iniziato con la sconfitta nella battaglia di Lepanto del 1571, sicuramente in atto dalla fine del ‘700) lasciò l’area amministrata secondo un approccio latifondista, con una bassa densità abitativa, senza un controllo stretto sul territorio. Quando le condizioni lo permisero, alcuni ebrei iniziarono a pensare a fare ritorno nella Terra Promessa, dove comunque alcune migliaia di ebrei erano sempre rimasti.

I territori che verranno poi meglio conosciuti come “Palestina” erano parte di un più generale ordinamento, l’Impero ottomano. Come tali, essi non costituivano una unità politica a sé stante né una società autonoma e ancor meno una comunità politica indipendente. Per circa quattrocento anni, dal 1517, anno in cui fu sottratta ai mamelucchi, agli inizi del Novecento, la regione visse all’ombra di Istanbul, all’interno di una ecumene imperiale. In linea generale, l’Impero ottomano, pur con discontinuità nel corso del tempo, si caratterizzò per l’atteggiamento sostanzialmente indifferente dei suoi gruppo dirigenti verso la vita quotidiana dei sudditi. Ciò garantiva il buon grado di autonomia di questi ultimi a fronte del rispetto di alcuni obblighi, in particolare del pagamenti dei tributi, e di una fedeltà di principio alle istituzioni centrali[23].

«Un popolo senza terra per una terra senza popolo» era stato il motto di Herzl. Ma la Palestina era davvero una terra senza popolo? All’inizio del XIX secolo, la popolazione globale della Palestina, allora una periferica provincia dell’Impero Ottomano, era di circa 300.000 persone, di cui 5000 ebrei e 25000 cristiani. Nel 1840, mentre la popolazione musulmana e cristiana restava stabile, gli ebrei erano raddoppiati a 10000. Nel 1880, la popolazione globale era salita a 450000 individui, di cui 45000 cristiani e 24000 ebrei, metà dei quali abitavano a Gerusalemme, la più grande città del paese. […] La presenza ebraica in quella che per gli ebrei della diaspora restava il principale punto di riferimento religioso e mitico, la Terra Santa, non era scomparsa completamente nel corso del Medioevo, e si era accresciuta dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna con l’arrivo di gruppi di sefarditi stabilitisi a Hebron, Safed, Tiberiade e Gerusalemme. […] Alla fine del Settecento, gruppi chassidici provenienti dalla Polonia e dalla Lituania si insediano a Safed e Tiberiade, e all’inizio dell’Ottocento arrivano i lituani discepoli del Gaon di Vilna. […] Dopo il Trattato di Parigi del 1856 che impone al sultano l’uguaglianza civile dei non musulmani tanto ebrei che cristiani, la presenza ebraica ha un deciso incremento[24].

Theodor Herzl

L’area geografica che stava per diventare la moderna Palestina era suddivisa in tre sangiaccati, rispettivamente quelli di Nablus, Akko e Gerusalemme. […] I sangiaccati di Nablus (comprendente Nazareth e Safed) e di Akko (che includeva Haifa) furono quindi annessi al nuovo vilajet (“regione” […]) di Sidone, con capitale Beirut. Damasco continuò invece ad esercitare il suo potere su Gerusalemme (con giurisdizione su Giaffa, Beersheva, Hebron e Gaza). […] La popolazione dei territori palestinesi conduceva perlopiù una esistenza autonoma, ossia estranea all’attività politica ufficiale del sangiaccato. Quasi l’80% degli abitanti viveva nelle zone rurali, dedicandosi all’agricoltura e risiedendo di solito in piccoli villaggi[25].

Una prima svolta nella vita degli abitanti dei sangiaccati palestinesi fu la promulgazione, nel 1858, di una nuova legislazione relativa alla proprietà terriera d’origine demaniale. Contrariamente a quanto era valso fino ad allora, fu conferito valore giuridico all’uso delle terre, trasformandolo in proprietà di diritto. […] La legge consentì, da quel momento, la loro registrazione a proprio nome, a patto che fossero effettivamente coltivate da un privato. L’obiettivo, per Istanbul, era di identificare i contribuenti e procedere così ad una loro efficace tassazione[26].

Nel 1883, […] molto prima che il libro di Herzl “Lo Stato ebraico” venisse pubblicato, arrivò in Palestina la prima ondata di 25 mila immigrati ebrei. La maggior parte di loro (non tutti però) venivano dalla Russia[27].

[9] Si vedano le unità sulla diaspora e sull’antisemitismo.
[10] Si veda l’unità “Ebraismo e società civile”, paragrafo “ebrei e stato di diritto”.
[11] Paolo Mieli, E Napoleone invocò la rinascita d’Israele, Il Corriere della Sera, 11 dicembre 2012, pag. 42-43.
[12] Paolo Mieli, E Napoleone invocò la rinascita d’Israele, Il Corriere della Sera, 11 dicembre 2012, pag. 42-43.
[13] Paolo Mieli, E Napoleone invocò la rinascita d’Israele, Il Corriere della Sera, 11 dicembre 2012, pag. 42-43.
[14] Paolo Mieli, E Napoleone invocò la rinascita d’Israele, Il Corriere della Sera, 11 dicembre 2012, pag. 42-43.
[15] Luigi Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele, Rubbettino, Catanzaro, 2010, p. 67.
[16] Anna Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2009, p.105.
[17] Gadi Luzzatto Voghera, La riforma ebraica e le sue articolazioni fra Otto e Novecento, in Giovanni Filoramo (a cura di), Le religioni e il mondo moderno, David Bidussa (a cura di), Ebraismo, Einaudi, Torino, 2008, p.126-127.
[18] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 127-128.
[19] Abba Eban, Storia del Popolo ebraico. Dall’età dei profeti allo Stato d’Israele, Mondadori, Verona, 1971, p. 282-283.
[20] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 24.
[21] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 207.
[22] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 307-316.
[23] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 3-4.
[24] Anna Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 108-109.
[25] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 4-6.
[26] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 11.
[27] Paolo Mieli, E Napoleone invocò la rinascita d’Israele, Il Corriere della Sera, 11 dicembre 2012, pag. 42-43.

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