Il Sionismo

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Nel corso del XIX secolo, in Europa occidentale, gli ebrei conobbero un periodo felice della loro storia. Appartenenti spesso alla classe borghese, ebbero un’ascesa economica e sociale, a cui corrispose anche una crescita culturale e ideologica. L’idea di un ritorno a Sion fu così un processo graduale, favorito da numerosi elementi di segno contrapposto: se in Europa occidentale l’emancipazione successiva alla Rivoluzione francese aveva generato una progressiva acquisizione di diritti e libertà, pur mantenendo forti tracce di antisemitismo, ad est, in Russia in particolare, l’autocrazia zarista non lasciava spazio ad alcuna forma di espressione della popolazione e gli ebrei erano sottoposti a continue persecuzioni.

Il nuovo nazionalismo ebraico nacque non solo come una reazione ebraica all’antisemitismo moderno, come è stato sostenuto dai suoi oppositori, ma anche per un bisogno e una dinamica interni. Il sionismo derivò i suoi valori dall’ambiente generale in cui nacque, e i suoi obiettivi possono essere facilmente identificati con quelli dell’epoca: libertà nazionale e libertà individuale, accompagnate dal progresso sociale ed economico. I primi sionisti furono tutti uomini del diciannovesimo secolo […]. Il fatto che un secolo dopo le rivoluzioni americana e francese gli ebrei fossero ancora accusati di essere un gruppo straniero indusse molti a cercare una soluzione più efficace. Fino all’epoca dell’emancipazione, nessuno dubitava dell’esistenza di una nazionalità ebraica[28].

A questo nuovo contesto si può ricondurre la diffusione del pensiero proto-sionista e la successiva nascita del sionismo, sebbene l’evento scatenante sia stato, ancora una volta, un episodio di antisemitismo. Il 5 gennaio del 1895 a Parigi, infatti, veniva degradato pubblicamente il capitano Alfred Dreyfus, unico ufficiale ebreo dello Stato Maggiore, per aver trasmesso alcuni segreti militari ai tedeschi[29]. Le prove di questa accusa si sarebbero rivelate false, ma solo alcuni anni più tardi. Tra i giornalisti presenti c’era Theodor Herzl, ebreo viennese che rimase particolarmente scosso dalla vicenda.

Si dissolse allora, all’udire quel grido di “Morte a Dreyfus! Morte agli ebrei”, l’illusoria convinzione, nella quale si erano cullati gli ebrei occidentali assimilati, secondo la quale il loro processo di accettazione nella società europea fosse ben avviato e quasi completato. In nessun Paese questo senso di crescente sicurezza era stato più forte che in Francia[30].

Se pure la Francia era ostile, si chiese Herzl, dove mai si poteva sperare di essere accettati in Europa?[…] Il primo congresso sionista con delegati di sedici Paesi, riunitosi il 29 agosto 1897 nel gran salone del casinò municipale di Basilea, promosso, organizzato e finanziato da Herzl, trae la sua origine da quella scena tremenda del 5 gennaio 1895 all’école militare[31].

Il primo Congresso sionista proclamò come proprio scopo la creazione in Palestina di un “focolare” per gli ebrei. Un fine ancora lontano, ma il Congresso raggiunse comunque un importante obiettivo: aprì un dibattito pubblico sulla questione ebraica.

Per Herzl gli ebrei costituivano un popolo, o comunque dovevano maturarne la coscienza. Non a causa di un antico spirito nazionale, di uno storico retaggio di sangue, ma perché le nazioni si rifiutavano di riconoscerli come eguali. […] La sua idea di nazione è completamente razionalistica, atomistica, politica, quasi contrattuale[32].

Il suo sionismo [di Herzl] stava all’incrocio di un’idea laica (l’emancipazione nazionale, la formazione di uno Stato-nazione) e un’idea religiosa (il ritorno a Gerusalemme): più squillante tendeva ad esser la prima, più sfumata la seconda[33].

La parola stessa «sionismo» è un neologismo, creato nel 1890 dal giornalista viennese Nathan Birnbaum nel suo opuscolo Selb-Emanzipation (Autoemancipazione). Esso deriva da Sion, nome di una delle colline di Gerusalemme che già nella Bibbia è usata per metonimia a rappresentare l’intera Gerusalemme. […] Nel 1897, Theodor Herzl lo adottava per il suo programma politico, facendolo diventare l’etichetta indiscussa con cui si designò il progetto di acquisizione della sovranità all’interno di un territorio ebraico indipendente, il progetto cioè di formazione di uno stato degli ebrei, che ponesse fine alla loro situazione di popolo diviso nella diaspora e li equiparasse agli altri popoli, radicati su un territorio, organizzati in uno Stato[34].

La forza di Herzl riuscì ad aprire un dibattito nel mondo ebraico. Nel 1896 aveva già iniziato la sua opera con il libretto Der Judenstaat (“Lo Stato degli ebrei”), alla cui base stava la tesi secondo la quale, dato che agli ebrei non era permesso assimilarsi alla vita europea, avrebbero dovuto riunirsi in un proprio stato.

Il nuovo corso del nazionalismo ebraico è segnato da quattro punti chiave, quali si ricavano dal primo Congresso sionista (agosto 1897): la scelta di obiettivi prioritari (la diplomazia), la semplicità del messaggio (il programma di Basilea resta il programma ufficiale del movimento sionista fino al 1946 e comprende solo quattro punti), il carattere pubblico del modo di procedere, infine l’azione incentrata intorno a un comitato d’azione e a un capo. […] Tutto stava a indicare la mancanza di interesse del dirigente viennese [Herzl] per l’ebraismo russo: la scelta di Zurigo come sede del congresso, la disinformazione in cui vennero lasciati i russi al momento del trasferimento della città del congresso a Monaco e poi a Basilea[35].

Dopo il 1897, si susseguirono i congressi sionisti, che diventarono una sorta di Assemblea nazionale. Ma già dalle prime fasi, si notavano profonde differenze al suo interno e più in generale molteplici posizioni nel mondo ebraico. Il movimento sionista era destinato ad acquisire diverse sfumature, secondo l’eredità dei movimenti e dei gruppi formatisi nel secolo precedente. Si sentivano le differenze tra ebrei occidentali e orientali, le cui condizioni politiche e sociali erano spesso molto diverse. C’erano divergenze, talvolta sostanziali, tra religiosi e laici: si giunse alla definizione di un sionismo religioso e di un sionismo socialista, ma vi furono anche alcuni ortodossi, trasversalmente tra Oriente e Occidente, che vi identificavano un movimento profano[36]. C’erano poi le diverse posizioni politiche: da una parte chi accettava sistemazioni anche in altri territori (come quello dell’Uganda), dall’altra una maggioranza decisa a far sì che si concretizzasse il ritorno nella Terra dei Padri. La proposta di uno stato degli ebrei in Uganda del 1903 pose seri interrogativi esistenziali: il sionismo aveva lo scopo di cercare un rifugio o voleva promuovere una rinascita culturale e nazionale?

Anche tra quanti parlano prima di tutto di alleviare la sofferenza degli ebrei, il sionismo non può essere ridotto a una reazione all’antisemitismo, poiché la miseria dei perseguitati si traduce in una partenza in massa per la Palestina, ma per gli Stati Uniti[37].

Il pensiero ebraico che si sviluppò dalla fine del ‘700 e che si concretizzò gradualmente nel movimento sionista fu dunque estremamente complesso. E proprio in seno al sionismo stesso, nei successivi congressi, le opinioni si svilupparono e si moltiplicarono.

Si cristallizzano due correnti, che rappresentano l’uno il movimento uscito dal congresso e l’altra il Comitato di Odessa legalizzato nel 1890. La prima scommette su un’azione diplomatica prioritaria, quella in cui Herzl si impegna senza tregua fino alla morte, nel luglio 1904; la seconda persiste nel ritenere che solo l’insediamento paziente e il lavoro agricolo renderanno possibile la «rinascita della nazione ebraica sulla sua terra»[38].

Herzl morì nel 1904, ma il movimento sionista si era ormai avviato e negli anni successivi continuò a raccogliere adesioni tra gli ebrei della diaspora e a dar vita a nuovi insediamenti in Palestina. Parallelamente al progetto ideologico, politico e sociale, si verificò un incremento delle migrazioni verso la Terra Promessa, seguendo un trend già avviatosi nel corso del XIX secolo e stimolato dalle incessanti persecuzioni in atto in diversi paesi europei, Russia in primis. Con questa migrazione si realizzava il fenomeno della Aliyà, in ebraico salita, intesa in senso spirituale, termine che indica il ritorno degli ebrei in Erez Israel, la Terra d’Israele, la Terra dei Padri. Dalla fine del XIX secolo si susseguirono cinque ondate migratorie, esattamente negli anni 1882-1903, 1904-1914, 1919-1923, 1924-1928, 1929-1939. Il bisogno di emigrare si fece ovviamente più impellente negli anni delle persecuzioni nazifasciste e nel periodo immediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando molti ebrei europei avevano perso la propria famiglia, ogni loro bene, ma soprattutto la fiducia nella patria in cui avevano creduto e che in molti casi avevano contribuito a costruire nei decenni precedenti.

Si verificò [dal 1881 e fino al 1903] la prima aliyà, la migrazione di un gran numero di ebrei verso quel territorio. Una parte degli emigranti dalla Russia […] optò per quella che considerava la terra primigenia, dove, soprattutto nelle città considerate sante dall’ebraismo (Gerusalemme, Tiberiade, Safed e Hebron), viveva, in condizioni di miseria, una antica comunità di alcune migliaia di correligionari, composta dai discendenti degli ebrei espulsi nel XV secolo della Spagna e dai pii ortodossi. Tra il 1881 e il 1903 tra i 20mila e i 30mila ebrei cercarono quindi di insediarsi in Palestina, aderendo alla proposta sionista[39].

I primi ebrei che giunsero in Palestina dovettero far fronte a ostacoli rilevanti. La mancanza di infrastrutture, le difficoltà climatiche e ambientali, la corruzione dell’amministrazione ottomana, la diffidenza della popolazione araba, l’inesperienza lavorativa. Da qui l’importanza dell’interventi di quei filantropi ebrei che decisero di investire su queste terre e su queste persone, acquistando dai notabili arabi proprietari terrieri zone aride ma che potevano essere lavorate, pur a costi elevati.

Mentre la prima aliyà non era riuscita a creare le strutture economiche e sociali per un insediamento stabile, le ondate successive raggiunsero tale obiettivo, consolidando in poco meno di vent’anni, tra il 1904 e il 1923, la presenza di 75mila nuovi immigrati. Con la seconda aliyà, negli anni a cavallo tra il 1904 e il 1914, e poi ancora con la terza, tra il 1919 e il 1923, si pervenne alla rescissione di molti dei rapporti con l’economia araba locale e con i suoi lavoratori, cercando in tutti i modi di consolidare un circuito ebraico di produzione e consumo indipendente dall’una e dagli altri[40].

Il rapido procedere di questa immigrazione e il crescente numero di ebrei presenti in Palestina, portò alla formazione dei primi kibbutzim, comunità rurali, dedite al lavoro agricolo, felice esperimento di collettivizzazione delle campagne; ancora oggi, sebbene con alcune naturali evoluzioni, molti kibbutzim continuano la loro attività.

Il kibbutz di Mahanaim in epoca recente

Il sionismo ebbe in quest’esperienza un carattere peculiare. Tuttavia, questa forma non fu l’unica: il sionismo come ogni altra idea di costruzione di uno Stato nazionale avrebbe alimentato diversi filoni di pensiero e di indirizzo politico e culturale.

[28] Abba Eban, Storia del Popolo ebraico. Dall’età dei profeti allo Stato d’Israele, Mondadori, Verona, 1971, p. 276.
[29] Per approfondimenti si veda l’unità sull’antisemitismo, paragrafo “L’affaire Dreyfus”.
[30] Luigi Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele, Rubbettino, Catanzaro, 2010, p. 74.
[31] Luigi Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele, Rubbettino, Catanzaro, 2010, p. 79.
[32] Luigi Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele, Rubbettino, Catanzaro, 2010, p. 204-205.
[33] Luigi Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini d’Israele, Rubbettino, Catanzaro, 2010, p. 71.
[34] Anna Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 103-104.
[35] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 176-177.
[36] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 352-369.
[37] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 454.
[38] Georges Bensoussan, Une histoire intellectuelle et politique du sionisme, Fayard, Paris, 2002 (trad. It. Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino, 2007, p. 181.
[39] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 28.
[40] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 30.

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