Dalla Prima Guerra Mondiale alla nascita dello Stato d’Israele
La Prima Guerra Mondiale segnò una prima svolta per il progetto sionista e per la situazione del territorio di Palestina. Già nel 1908, infatti, la rivolta dei “Giovani Turchi” aveva provocato profondi mutamenti nel già agonizzante Impero Ottomano, trasformandolo in senso laico turco-centrico. Questo movimento aveva anche fomentato il nascente nazionalismo arabo.
Il conflitto che si consumò tra il 1914 e il 1918 provocò la fine di quattro imperi: oltre a quelli tedesco, austro-ungarico e russo, fu proprio l’impero turco (alleato degli Imperi centrali durante la Guerra) a dissolversi definitivamente. Il Medio Oriente fu così investito dalla presenza delle potenze europee: una serie di accordi portò Francia e Gran Bretagna a spartirsi i territori mediante protettorati. In virtù dell’accordo Sykes-Picot del maggio 1916 (dai nomi dei Ministri degli Esteri dei due Paesi) il territorio di Libano e Siria fu assegnato alla Francia, mentre ai britannici spettò l’Iraq e l’area palestinese. Ma le trattative, non sempre condotte sotto la luce del sole, andarono oltre.
Gli inglesi stipularono una serie di intese con lo sceriffo (custode) della Mecca, l’emiro Hussein, capo della famiglia hashemita. Hussein […] aveva concordato con questo [Henry MacMahon, l’alto commissario inglese in Egitto] che, schierandosi contro il governo ottomano in una guerra di liberazione araba, avrebbe reso possibile la costituzione di un grande Stato arabo indipendente esteso a nord sino al 37° parallelo, a est sino al confine iraniano e a ovest sino ai distretti di Damasco, Homs, Hama e Aleppo, con esplicita esclusione delle coste della Siria e del Libano ma non della Palestina, il cui destino non venne apertamente determinato. […] Un anno dopo, il 2 novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico, lord Balfour, avrebbe espresso, per conto del governo britannico, in una dichiarazione riguardante il popolo ebraico, l’auspicio che questo si costruisse una national home sul territorio della Palestina. Così, in relazione al medesimo territorio, veniva assunta una serie di impegni diplomatici strumentali e contraddittori[41].
“His Majesty’s Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country”.
L’espressione, in sé anodina, era senza precedenti né riscontri nel diritto internazionale, aprendo così il campo ad un conflitto di interpretazioni sul suo significato. Quel che è certo è che essa costituisce la prima presa di posizione a favore del movimento sionista da parte di un governo europeo[42].
Durante gli anni Venti il focolare nazionale accrebbe le sue dimensioni, anche se non in modo spettacolare: nel 1922 gli ebrei raggiungevano il numero di 83.790 su una popolazione totale di 752.048 abitanti; nel 1929 erano 156.481 su 992.559 [Anon. 1939]. Più significative del loro numero furono le istituzioni che le condizioni del mandato consentirono loro di costruire. […] L’agenzia ebraica per la Palestina, costituitasi durante il mandato, si affermò rapidamente come un governo degli ebrei di Palestina, acquistando terre e costruendo scuole e ospedali. […] Le istituzioni arabe non riuscirono a emulare quelle che gli ebrei stavano sviluppando[43].
Tale istituzione [l’Agenzia ebraica] era prevista dal mandato medesimo, all’articolo 4, dove si parlava della costituzione di “an appropriate Jewish agency” che avrebbe dovuto cooperare con l’amministrazione inglese. […] L’Agenzia ebraica svolgeva tre funzioni prioritarie: il controllo dello sviluppo materiale della comunità ebraica palestinese […]; l’assistenza all’immigrazione e all’inserimento residenziale e lavorativo dei nuovi venuti […]; la gestione dei rapporti con le autorità inglesi[44].
Anche io e i miei compagni del Collegio rabbinico di Livorno avevamo aderito al movimento sionistico, ne eravamo diventati gli attivi propagandisti nell’ambito dell’ebraismo italiano, e andavamo di casa in casa a raccogliere le offerte per i fondi di ricostruzione e a vuotare i bossoli del Fondo nazionale ebraico. Con quei soldi gli ebrei di Palestina acquistavano dagli arabi i terreni desertici, sabbiosi o paludosi su cui sarebbero ben presto sorti i primi kibuzzim, colonie collettiviste, dove i pionieri che venivano da ogni paese d’Europa avrebbero finalmente trovato la possibilità di vivere una vita dignitosa e libera. La rivolta araba degli anni 1936-1937 contro il Mandato britannico sulla Palestina, che era sfociata negli attentati terroristici contro villaggi e insediamenti ebraici, era stata solo strumentale. Gli arabi, infatti, erano ben felici di vendere a caro prezzo terreni improduttivi agli ebrei, ma erano stati sobillati dal Gran Muftì di Gerusalemme, assoldato e pagato per procurare fastidi alla Gran Bretagna e agli ebrei dai tedeschi e dagli italiani, che avevano appena dato vita al famoso Asse Roma-Berlino[45].
La figura dominante dell’Agenzia negli anni Trenta [fu quella di] David Ben Gurion. Nato a Plonsk, vicino a Varsavia, nel 1886, all’età di 19 anni Ben Gurion emigrò in Palestina per lavorare la terra, rischiando di morire di malaria. Di profonde convinzioni socialiste, collaborò alla fondazione e alla direzione dell’associazione sindacale Histadrut […] e del Mapai (partito unificato dei lavoratori), che divenne la forza dominante nella Palestina ebraica[46].
Nel primo decennio la Palestina britannica rimase sostanzialmente tranquilla. Un acuirsi delle tensioni fra arabi ed ebrei si verificò a partire dal 1928, quando si verificarono scontri presso il Muro Occidentale di Gerusalemme che costarono la vita a 133 ebrei e 116 arabi. Gli anni ’30 segnarono un’accelerazione dei processi in corso causata dalle contingenze politiche: l’ascesa di Hitler in Germania e il diffondersi dell’antisemitismo in vari paesi europei portò molti ebrei a cercare fortuna altrove; le restrizioni americane lasciarono la Palestina come unica opzione. Ma ciò comportò anche una reazione araba.
Nel 1936 la popolazione ebraica aveva raggiunto la cifra di 370.483 persone su un totale di 1.336.518 [Anon. 1939]. […] La “rivolta araba” ebbe inizio il 15 aprile 1936 con l’assassinio di un ebreo nelle vicinanze di Nablus. Le dimensioni della rivolta obbligarono i britannici a un dispiegamento su larga scala delle forze di sicurezza, insieme a un atteggiamento di ufficiale benevolenza verso la Hagana, l’organizzazione clandestina di difesa dell’Agenzia ebraica. […] Alla fine del 1937 i britannici ritirarono il sostegno che per breve tempo avevano accordato all’idea di spartizione, a causa dell’opposizione araba […]. Una seconda commissione […] fu inviata in Palestina. Il rapporto finale venne pubblicato nel settembre 1938, quando la crisi di Monaco aveva messo il mondo di fronte alla possibilità di una guerra. Era quindi più che mai necessario assicurarsi il favore degli arabi, non solo perché la Palestina stava impegnando un numero eccessivo di truppe, ma perché la Gran Bretagna aveva bisogno di assicurarsi il petrolio mediorientale e le vie di comunicazione verso l’India, l’Australia e l’Oriente. […] [47].
Nel 1939 i britannici emanarono il Libro Bianco, contenente limitazioni alle immigrazioni ebraiche in Palestina. Il Libro Bianco non accontentò nessuna delle parti in causa e lasciò molto deluso soprattutto il leader sionista del momento, Chaim Weizman, che molto aveva creduto nel dialogo con gli inglesi. Molti ebrei continuarono a trasferirvisi clandestinamente, tanto più che in Europa la situazione era ogni giorno più a rischio e la minaccia della Shoah sempre più concreta.
Durante la guerra, il Gran Muftì di Gerusalemme, capo degli arabi di Palestina, si alleò con Hitler; gli ebrei invece supportarono, anche fattivamente, gli angloamericani. Inquadrata nell’VIIIa armata britannica, infatti, si formò un’unità di combattenti presto nota come Brigata Ebraica, composta da soldati ebrei provenienti dalla Palestina. Le prime truppe erano state organizzate nel dicembre 1939: nel 1940 erano nate così le Jewish Units. Gli ebrei palestinesi iniziarono così il loro arruolamento volontario per offrire il proprio sostegno allo sforzo militare alleato. Gli inglesi accettarono però la loro partecipazione solo nel 1942, quando 18mila soldati ebrei palestinesi, prima disseminati in unità miste, furono raccolti in battaglioni completamente ebraici. Nel 1944 furono vinte definitivamente le resistenze del governo inglese, ostile alla nascita di un esercito ebraico: il 29 agosto 1944, Churchill annunciò alla Camera dei Comuni la costituzione della Brigata Ebraica combattente, simboleggiata da una bandiera bianca e azzurra con la stella di David.
Nonostante questi sforzi, la linea del Libro Bianco rimase in vigore anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’intento del Ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin, infatti, era quello di tutelare l’esigenza del suo paese di mantenere l’accesso ai pozzi petroliferi del Medio Oriente e il controllo degli oleodotti, che arrivavano fino al porto di Haifa. Eppure, il mondo si avviava verso la decolonizzazione e anche i paesi di quest’area erano in procinto di essere coinvolti da questo processo.
Nel momento decisivo della loro storia i palestinesi mancarono delle strutture politiche adatte e di una leadership all’altezza della situazione. […] Il mondo arabo in generale e quello arabo-palestinese in particolare si ritrovarono impreparati alla grande sfida che di lì a poco i sionisti avrebbero costituito per loro[48].
Dal dopoguerra, la vicenda di Israele si intrecciò ancor di più con le dinamiche internazionali. Nel contesto successivo al conflitto, si inserì in un quadro che vedeva la ricerca del disimpegno da parte britannica e l’ascesa delle due nuove superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Nel territorio, intanto si susseguivano gli scontri tra arabi ed ebrei e tra questi ultimi e inglesi, soprattutto nell’inverno 1945-46. Nell’estate ’46 le tensioni si acuirono: gli inglesi sferrarono un duro colpo all’Agenzia ebraica isolando Tel Aviv e le aree ebraiche delle altre principali città (Gerusalemme, Haifa) con violente incursioni; l’Irgun, una delle componenti militari ebraiche, come risposta, fece esplodere delle bombe all’hotel King David di Gerusalemme, quartier generale del governo britannico. L’attentato convinse gli inglesi della necessità di trovare una risoluzione politica della questione. In quei mesi si susseguirono così conferenze, piani e missioni di inviati speciali: iniziò a prendere corpo l’idea di una spartizione del territorio tra arabi ed ebrei, sebbene permanesse l’ostilità dei primi a fare alcun tipo di concessione. I sionisti erano divisi: in molti ritenevano questa l’unica soluzione realistica, alcuni vedevano in questo sbocco il tradimento di un sogno.
Da parte americana era crescente l’interesse per quest’area del mondo, specie dopo l’enunciazione della Dottrina Truman e della strategia del containment, ossia quell’iniziativa politica volta ad arginare l’avanzata del comunismo in diversi paesi, contenendo, appunto, la minaccia sovietica. In quest’ottica, gli Stati Uniti avrebbero preso il posto della Gran Bretagna anche in Medio Oriente; ma gli atteggiamenti nei confronti della questione palestinese erano assai divergenti. Favorevole a supportare la nascita di uno stato ebraico era il Presidente Harry Truman, mentre forte avversità era presentata dal Dipartimento di Stato. Truman, infatti, era scosso dalla tragedia della Shoah e percepiva il problema umano che ne derivava, ma la sua posizione era anche il frutto di calcoli accurati.
Il problema umano era intollerabile e, per di più, controproducente. Il presidente americano fece il seguente ragionamento: lasciar marcire la questione dei profughi ebrei avrebbe portato all’esasperazione il movimento sionista e tutta l’opinione pubblica […]; conseguentemente, le accuse che il sionismo rivolgeva ormai alla politica inglese […] si sarebbero appuntate contro il governo americano, creando una situazione politica assai sfavorevole ad un presidente democratico e liberal in previsione delle elezioni presidenziali del 1948. Queste le ragioni politica interna. […] Sul piano internazionale la valutazione appariva, in realtà, più difficile. Da un canto, sembrava indiscutibile il fatto che favorire la nascita di uno Stato ebraico nel Medio Oriente avrebbe portato ad un grave inasprimento delle relazioni arabo-americane e, con ogni probabilità, ciò avrebbe consentito all’Unione Sovietica di giocare nell’area mediorientale carte che fino ad allora non aveva mai posseduto. D’altra parte, si poneva, in alternativa, un interrogativo di fondo: lasciar cadere l’opzione sionista avrebbe garantito agli Stati Uniti l’amicizia dei paesi arabi in funzione anti-sovietica? […] Vi erano almeno due considerazioni di fondo che rendevano precaria una conclusione soddisfacente della questione. In primo luogo, la posizione della Gran Bretagna in Medio Oriente appariva sempre più compromessa; gli inglesi avevano accumulato nel tempo un enorme discredito presso gli arabi, un discredito che si andava rapidamente trasformando in un vero e proprio odio verso l’Occidente; inoltre, gli Stati Uniti venivano considerati come la potenza che avrebbe preso il posto della Gran Bretagna […]. In secondo luogo, il mondo politico arabo appariva agli americani molto fragile, contraddittorio, in una parola inaffidabile[49].
Negli anni precedenti la dichiarazione d’indipendenza d’Israele il governo di Mosca aveva sempre favorito il rifornimento di armi a coloro che erano visti come esponenti di un movimento politico con obiettivi chiaramente anti-imperialisti. Ma soprattutto la realizzazione delle aspirazioni del sionismo poteva essere un’occasione per l’Unione Sovietica di inserirsi in quel settore mediorientale e mediterraneo […]. Il governo sovietico sentiva anche una consonanza politico-nazionale, oltre che ideologica, con la leadership sionista: la gran parte di quest’ultima, infatti, aveva sì abbracciato gli ideali del socialismo, e quindi apparteneva a una concezione collettivista della società, ma soprattutto era in maggioranza di origini polacco-russe[50].
Tutte le potenze dell’epoca cercavano dunque di trarre massimo giovamento dalla situazione. A fronte dei continui insuccessi inglesi, nell’aprile 1947 la questione fu deferita alle Nazioni Unite. La nuova commissione d’inchiesta (United Nations Special Committee on Palestine – UNSCOP[51]) avanzò una proposta non dissimile da quelle già ipotizzate nei mesi precedenti: si dovevano costituire due stati, uno arabo e uno ebraico, con l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Le posizioni delle parti in causa furono quelle dei mesi precedenti: rifiuto da parte degli arabi, accettazione dei sionisti.
Il rapporto UNSCOP venne discusso dall’Assemblea Generale il 29 novembre 1947 e approvato con 33 voti favorevoli (compresi quelli degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica e della Francia), 13 voti contrari (quelli degli stati arabi, dell’India e della Grecia) e 10 astensioni (tra le quali quella della Gran Bretagna). L’Assemblea dell’ONU prese nota del fatto che il mandato britannico sarebbe spirato il 1° agosto 1948 e nominò una commissione per l’attuazione delle risoluzioni deliberate. […] I rappresentanti dei paesi arabi decisero che la costituzione di uno Stato ebraico avrebbe incontrato la loro resistenza armata. I disordini che dilagavano in Palestina fecero da preludio alla guerra. Essi spinsero i Britannici ad anticipare la loro partenza dal 1° agosto al 15 maggio. Da quella data, la Palestina era in pratica abbandonata a una situazione di anarchia, nella quale i sionisti si rivelarono i più efficienti e i più preparati[52].
Quella che si verificò a partire dal dicembre 1947 fu una vera e propria guerra civile. Il 14 maggio 1948, allorquando gli inglesi abbandonarono definitivamente l’amministrazione del mandato di Palestina, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato d’Israele. Primo presidente fu Chaim Weizmann, mentre l’incarico di Primo Ministro spettò a David Ben Gurion. Immediati o quasi furono i riconoscimenti degli altri Paesi, inclusi Stati Uniti e Unione Sovietica.
Non altrettanto fecero gli arabi, sebbene ciò fosse previsto dalla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il destino delle comunità arabe autoctone nel nuovo Stato fu segnato dall’accelerazione degli eventi politici e dal conflitto armato che durò fino all’inizio del 1949: mentre una parte di esse rimase nei luoghi di origine, prefigurando così la loro condizione di cittadini del futuro Stato di Israele, per molte altre, davanti al ripetersi delle violenze o per la pressione della propaganda proveniente dai Paesi arabi limitrofi, non vi fu che la strada dell’esilio.
[41] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Bari, 2003, p. 77.
[42] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 40.
[43] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 15-16.
[44] Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza, Bari, 2010, p. 47.
[45] Elio Toaff, Perfidi Giudei Fratelli Maggiori, Mondadori, Milano, 1987, p.147-148.
[46] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 15-16.
[47] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 17-19.
[48] Thomas G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 30-31
[49] Antonio Donno, Una relazione speciale. Stati Uniti e Israele dal 1948 al 2009, Le Lettere, Firenze, 2013, p. 23-25.
[50] Luca Riccardi, Il «problema Israele». Diplomazia italiana e PCI di fronte allo Stato ebraico (1948-1973), Edizioni Angelo Guerini, 2006, p. 42-43.
[51] La commissione era composta da undici membri scelti tra paesi neutrali: Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Jugoslavia, Paesi Bassi, Perù, Svezia, Uruguay.
[52] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Bari, 2003, p. 942-943.